L’influenza delle strutture linguistiche sulla speculazione filosofica buddista
Ricordo che la prima volta che mi capitò sotto gli occhi la cosiddetta “ipotesi Sapir-Whorf” (che, semplificando, sostiene che la struttura della lingua che parliamo influenza profondamente il nostro modo di pensare e percepire il mondo) fu verso la fine degli anni Novanta, per un corso di “filosofia teoretica”. Il docente era una specie di decostruzionista-terzomondista piuttosto alternativo, e ci diede una delle più fitte ed interessanti liste di libri da studiare rispetto alla maggior parte degli altri insegnamenti universitari che ricordo allora. Quel modo di vedere contraddizione e relativismo in chiave diversa, sotto un punto di vista sostanzialmente positivo, mi stava simpatico già da allora, e penso di non averlo mai abbandonato. Va detto che mi suonava già familiare, visto l’interesse che mi portavo dietro dall’adolescenza per cose che forse non capivo perfettamente, come la spiritualità indiana, il buddismo e altre cose di quel tipo.
Negli anni, mettendo una accanto all’altra la “filosofia” occidentale e la “filosofia” orientale, mi sono convinto che quando si parla di India, nonostante l’esoticità che ancora cogliamo, si parli soprattutto di Occidente. È meno noto al di fuori di chi si occupa di lingue, ma la maggior parte delle lingue del subcontinente indiano, antiche e moderne (tra cui sanscrito e pali, le lingue principali del buddismo), fanno parte della famiglia linguistica indoeuropea, e sono quindi imparentate con le lingue del Vecchio Continente, compreso greco e latino.
Spetterà ad altri verificare un azzardo come questo, ma la speculazione nata in seno alla spiritualità dei Veda (detta poi induista) e poi quella buddista fu possibile anche perché il sostrato linguistico culturale in cui nacquero era di derivazione indoeuropea. Tale contesto offriva una struttura linguistica e morfo-sintattica complessa e flessibile, che permetteva un maggiore sviluppo della speculazione, della formalizzazione del pensiero e dell’astrazione. Ma cosa hanno le lingue naturali indoeuropee da renderle adatte a un alto grado di formalizzazione e astrazione? Alcuni elementi intrinseci della struttura morfo-sintattica: flessione nominale, sintassi analitica (più analitica di altre famiglie linguistiche), diversità di genere e numero grammaticale, articolazione del verbo in tempi complessi e in differenze aspettuali e, soprattutto, presenza di pronomi e articoli o forme che fungono da articoli, elementi che hanno in sè un valore semantico già astratto.
Il grado di astrazione e formalizzazione del pensiero occidentale non potrebbe aver visto la luce proprio grazie alla struttura stessa delle lingue europee, che facilita una concettualizzazione più astratta?
Intendiamoci, questa non è una considerazione che comporta nessun valore o gerarchia. Infatti, lingue meno analitiche e più sintetiche, come il giapponese e il cinese, tendono a riflettere un pensiero più intuitivo e olistico, e sappiamo quanto questo sia necessario in molti contesti. Tali lingue, se impiegate in senso speculativo, valorizzano l’interconnessione tra gli oggetti piuttosto che la loro separazione analitica, portando a visioni del mondo che privilegiano la totalità e l’armonia (almeno idealmente).
Mi chiedo, quindi, se in particolare il buddismo, col suo afflato universalistico, sospeso tra spiritualità e filosofia, con le fondamentali aggiunte alle origini indiane interposte dal suo passaggio in Cina e Giappone, non abbia raggiunto quell’equilibro tra analitico e sintetico (per esprimersi come un idealista testesco), proprio grazie all’incontro di queste due vene “linguistiche” dell’umanità.
In alto immagine del canone buddista in cinese, uno dei più importanti insieme a quello sanscrito, pali e tibetano.