Qualche estratto del libro (in bozza) “Hong Kong, l’anima di una città incredibile”, di prossima uscita
[…] Intenzionato a scoprire la vera anima della città, imbocco Nathan Road verso nord con l’idea di percorrerla per un tratto e poi deviare verso nord-ovest, e arrivare così al distretto di Sham Shui Po. È lì che si trovano i mercati rionali più vivaci di Hong Kong, ed è lì che, a quanto pare, non troverò traccia di stranieri occidentali e di turisti. La vita vera, insomma, quella che sto cercando. Alla fine, avrò vagato per la vecchia Hong Kong per circa otto ore, e tornerò esausto al mio hotel, ma entusiasta per l’umanità riscoperta, con immagini vere e piene di vita negli occhi.
Quando lasci l’arteria principale e ti inoltri nelle strade secondarie, tra negozi, bancarelle e folla, alzando gli occhi verso gli edifici circostanti, scorgi facciate che portano il segno della stratificazione. Guardando questi scorci del paesaggio urbano, mi viene in mente l’ossimoro “armonia caotica”. Ancora quelle torri fatiscenti, ancora quel clima. E gli edifici più brutti, nella relatività del giudizio – lo ripeto ancora una volta – sono i più belli perché i più espressivi, che parlano della vita della città. Blocchi di cemento e torri sottili di qualche decina di piani, con facciate in cemento scolorito, grigio o marrone, qua e là scrostati, anneriti, butterati di macchine per l’aria condizionata. A fianco, una selva di bambù e di teli verdi, l’impalcatura da cantiere usata a Hong Kong, rende le strade una foresta urbana. E poi le insegne, stracolme di caratteri cinesi tradizionali, che aumentano il bellissimo senso di “intreccio”, della nostra “armonia caotica”.
Arrivo a Sham Shui Po. Niente ricchi uomini d’affari, niente giovani donne in tailleur serie e silenziose come si scorgono a Central e Wan Chai. Con una forte presenza di comunità di immigrati e residenti a basso reddito, a Sham Shui Po finalmente incontri l’umanità vera: vecchie signore che fanno la spesa e si fermano a chiacchierare, madri con bambini petulanti, vecchietti che ti scrutano incuriositi, malesi e indonesiani che chiacchierano sulle panchine, in una striscia di parco prima delle strade dove si snoda il mercato.
Passeggio lento, ripercorrendo più volte le stesse strade, assaporando il brusio della folla e i profumi e gli odori di questa città. Una quantità inverosimile di merce è stipata sui banchi dell’elettronica e nei negozietti che si affacciano sulla via. Mi capita di pensare, ironicamente, che vista la quantità di gente che compra e di merce esposta, il mercato di Sham Shui Po avrà un PIL superiore alla regione Lombardia.
Entro in un negozio di dischi, l’unico rimasto in zona, mi pare. Due vecchi signori mi guardano incuriositi. È che da fuori ho scorto la copertina di un album della cantante culto Teresa Teng, o meglio nel suo nome reale Dèng Lìjūn, nome con cui è conosciuta in area cinese. Chiedo il prezzo, mi accorgo della scarsa padronanza dei signori anche con il mio inglese basico. Consapevole che la lingua del posto sia il cantonese, chiedo nel mio iniziale e primitivo mandarino se parlano il putonghua, il cinese standard. Mi fanno cenno di sì, insospettiti. “Questa è Dèng Lìjūn, vero?”. “Sì, una cantante di Taiwan”, mi dicono non sospettando che io sappia morte e miracoli di una delle più famose superstar della musica pop che l’intera Asia abbia mai conosciuto. Scambiamo qualche parola sulla mia provenienza, ma il disco è troppo caro. Mi riverso nuovamente per le vie del mercato.
Carni e frattaglie di ogni tipo appese o esposte in piattini, odori e colori per me inconsueti. Pezzi indefiniti di animali appesi nei vari negozietti e nei banchi del mercato. Di che animali si tratterà? E poi le onnipresenti anatre: arrostite, essiccate? Non lo capisco. Presenti non solo al mercato e nelle rosticcerie, ma appese anche nei ristoranti locali.
Pesci e pollame vivo ovunque, e macellerie in ogni angolo di strada. La vista del sangue è costante, mentre i macellai e pescivendoli tagliano a ritmo serrato pezzi di pesce e carne per i clienti che si affollano ovunque. Pensavo si trattasse di un giorno particolare, vista la folla, ma tornando più giorni di seguito vedo sempre la stessa identica ressa.
Tra gli avventori di bancarelle e negozi, le signore intorno ai sessant’anni sono sicuramente le più energiche. Gridano con una cantilena tipica del cantonese per invogliare la clientela a comprare. Ma si tratta di un suono troppo ripetitivo per attirare l’attenzione. Tanto più che i banchi sono già colmi di clienti che a loro volta interagiscono a voce alta. Forse contrattano sul prezzo.
Scorgo l’entrata di un mercato coperto. I corridoi tra i banchi già da fuori sono talmente colmi di persone che si vede che la folla striscia compatta. Entro incuriosito.
Al primo piano ancora pesce e carni. I rumori di grossi trincianti che tagliano teste ai pesci o grandi pezzi di carne rossa, si confondono con il vocio. Come se non bastasse, spesso le vecchie signore hanno carrelli a ruote dove riporre la spesa, cosa che ostacola notevolmente la viabilità negli angusti corridoi del mercato coperto.
Al piano superiore frutta e verdura, ma anche pollame. Vivo, rumoroso. Qualche gallo pensa bene pure di cantare, in quella confusione. Il tutto, va ammesso, difetta di qualche accorgimento per il benessere animale, ed è qui che la visione occidentale riversa i suoi strali sui cinesi, colpevoli di mangiare qualsiasi cosa si muova e respiri sulla terra, nei mari e in cielo. Eppure, al netto del rispetto delle povere bestie prima di morire immolate alla nostra fame, mi pare che sia un atteggiamento in linea con la natura, col suo ciclo infinito di creazione e distruzione.
Un altro giorno torno ai mercati di Sham Shui Po, ma è domenica. Uscito dall’hotel non lo avevo notato perché era mattina presto, ma già sulla via del ritorno noto un fenomeno strano. Non so se ricorrente o occasionale, ma degno di essere riportato. Donne che penso siano malesi e indonesiane, visto l’aspetto e la presenza del velo, sostano su teli stesi per terra ovunque, in una sorta di picnic. Nei pressi del mercato sono ovunque, ma poi tornando verso Nathan Road scopro che identici capannelli si trovano sui sovrappassaggi, persino in aree agli incroci. Una vista bizzarra, di decine, o meglio centinaia, di donne del sud-est asiatico che sostano in picnic urbani tra la gente e il traffico. Perché? È la gita del fine settimana di chi non può permettersi altro? Ma le giovani donne non paiono certo sofferenti, piuttosto allegre e spensierate. Molte fanno videochiamate con il cellulare su supporti, magari parlando alle famiglie nel paese d’origine, mentre mangiano con le gambe incrociate sedute sulle coperte.
È chiaro che semplicità della vita e felicità possono stare insieme.







