Contro il falso femminismo

Perché se il femminismo diventa moralismo non è più femminismo, e perché noi veri femministi  esaltiamo le potenti e bellissime metafore di “strega” e “puttana”

yuki onnaDa qualche anno mi ero ripromesso di non esprimere più la mia opinione sull’attualità sociale e politica. Avevo preso questa decisione per due motivi. Il primo, è che la società impazzita che si rispecchia nei social media è talmente ricolma di opinionisti, di professione e occasionali, che si può sicuramente fare a meno della mia testimonianza. Nel rumore di fondo, ogni opinione diventa solo altro rumore. Il secondo motivo è che dedicare il tempo a tematiche meno effimere rispetto all’attualità, mi faceva sentire meno superficiale e mi dava l’illusione di contribuire in misura maggiore alla mia crescita personale e – detto con ironia – a quella dell’umanità. Perché allora fare un’eccezione, adesso? Perché questa volta le tematiche dell’attualità coincidono con quelle di un mio percorso: lo studio del femminismo. Questo tema mi interessa sia da un punto di vista strettamente filosofico e politico, ma anche e soprattutto per come viene declinato nella letteratura e in genere nei fatti di cultura antropologicamente rilevanti. Scrittrici e personaggi femminili che rappresentano il destino delle donne in un mondo di uomini è uno dei centri dei miei interessi negli ultimi anni, anche se mi interessa soprattutto declinato in specifici contesti linguistici e geografici (quelli dell’Asia Orientale).

C’è un altro motivo che mi fa sentire l’urgenza di esprimermi su questo tema. Un senso di disagio. Ho notato negli ultimi decenni il ritorno preoccupante del moralismo relativo al corpo e alla sessualità. Questo nuovo moralismo è travestito da pensiero progressista. E come quello antico, anche questo nuovo moralismo si dedica con particolare ossessione al corpo della donna. Non è una novità, purtroppo.

È un processo inquietante, proprio perché è una forma di pensiero che dissimula se stesso e vuole apparire come il suo contrario: progressista, appunto. Questa forma è più pericolosa del moralismo “onesto”, quello becero e conservatore che ti dice come ti devi comportare, come devi gestire la tua sessualità perché te lo dice una certa divinità o un certo libro sacro.

Recentemente ho ascoltato un’interessante lezione del professor Massimo Raveri, storico delle religioni e studioso della filosofia orientale. Questa lezione riguardava la figura della donna nel pensiero religioso giapponese, ma, come sempre in Raveri, la tematica era estesa in senso molto più ampio. Riassumerò alcuni concetti brevemente perché penso siano molto utili anche per la finalità che mi pongo qui, scrivendo questo articolo.

Raveri spiegava che l’identificazione della donna come “impura” in quasi tutte le culture umane ha una specifica motivazione antropologica. La necessità di classificare il mondo e di renderlo comprensibile razionalmente, ha portato ad individuare la norma di ciò che è umano nella corporeità e nella fisicità maschile. L’ambiguità del corpo doppio non era facilmente assimilabile. Se l’uomo è quindi diventato la norma, la donna è diventava l’altro, la diversità da controllare e da riportare all’ordine.

Così, nascono i due poli entro cui la femminilità è accettata: quella della bambina e della figlia da una parte (quindi asessuata) e quella della madre dall’altra, dove la sessualità e la corporeità sono presenti, ma finalizzati a scopi socialmente e moralmente accettati: generare figli e discendenza per la società degli uomini. Fin qui Raveri.

Il mito e le credenze hanno sempre trattato la terza via, vale a dire una donna come individuo libero e non definito solo dalle relazioni di madre e di figlia, come elemento estraneo, pericoloso, deviante. Nel mito, il mondo infero è colmo di figure femminili. Dalle prediche dei teologi del medioevo europeo alle figure terribili della religiosità e del folklore orientale (la Kali indiana, o, ad esempio, la Yuki-onna del folklore giapponese), la femminilità è il simbolo del selvaggio, l’antitesi del vivere sociale ordinato, il disordine personificato.

Passando dal mito ancestrale al moralismo più “civilizzato” , si è quindi cercato di definire la donna libera, la donna che non fosse figlia o madre, come “strega” e “puttana”. Colei che tenta, devia, porta scompiglio.

Vivere la propria socialità in forme indipendenti, per esempio come donna non interessata alla maternità o come donna sessualmente libera, è sempre stata classificata come terza via da condannare.

Ora si capisce come le battaglie del politicamente corretto sulla donna come corpo oggetto mi facciano venire i brividi. Sebbene sia consapevole del condizionamento sociale che può muovere certi comportamenti, non posso fare a meno di notare come con il pretesto di preservare la donna dal redivivo o mai morto patriarcato, anche il nuovo pseudo femminismo intervenga sul corpo della donna e voglia controllarlo. Le dice che non può usarlo quel corpo, sfruttarlo, esibirlo, venderlo all’uomo. Altrimenti fa il gioco del patriarca. In realtà, reinventa in chiave nuova un moralismo rivisto, ma come il moralismo antico è sempre motivato da qualcosa che giace nel profondo: la paure del corpo e della sensualità. In special modo del corpo femminile.

Sposando la lezione di Schopenhauer rivisitata per questa occasione, l’idea che gli esseri umani siano caratterizzati da una brama di desiderio che perpetua la forza vitale e spinge a volere e desiderare l’altro, il corpo dell’altro, l’anima dell’altro, ciò che in genere è altro da sé (quale che sia la direzione di questo desiderio, declinato in tutte le tendenze possibili e immaginabili) è un fatto che va non solo accettato e compreso, ma che va apprezzato in tutta la sua bellezza, senza timori.

Faccio parte della fetta di umanità meno discriminata del mondo contemporaneo: individuo eterosessuale, uomo, di razza caucasica. Parlo, senza merito, da una posizione di vantaggio relativo e per me è facile pontificare. Inoltre, la mia posizione ambigua e problematica di femminista uomo – che sente comunque con grande intensità la sua “parte femminile” – mi da comunque la libertà di esprimere un’opinione come questa: se fossi una donna, rivendicherei in modo fiero e coraggioso il mio essere “strega” e il mio essere “puttana”. È questo il vero modo di essere femministi, per me. Queste parole, usate dell’umanità di genere maschile in senso deleterio, offensivo, per controllare il comportamento e il corpo femminile, per giudicare la donna e condannare la sua devianza dai modelli sociali accettati, sono parole che vanno rivalutate nel loro valore metaforico che io qui vorrei completamente spogliare dalla componente negativa e di cui anzi colgo, senza ironia, una grande carica poetica.

Insomma, l’appello retorico con cui, passionalmente, concludo è questo: non lasciate che nessun tipo di moralismo vecchio e nuovo controlli il vostro corpo, per nessuna ragione; non lasciate che la vostra libertà – etica, sociale e sessuale – venga ingabbiata nelle categorie truffaldine di figlia e madre, di donna onesta e non. Non siete (solo) madri e figlie, siete prima di tutto individui e donne. Siate orgogliosamente libere, siate orgogliosamente streghe e puttane.

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