Ame-no-Uzume, la sfacciata che balla nuda

Note sparse sul “Kojiki”, antico testo della letteratura giapponese

Kojiki_ShinpukujiUna graziosa giovane ragazza danza in modo scomposto e ridicolo davanti a una grotta. Un capannello di persone si raduna; divertiti, tutti la osservano. Lei pare in estasi, esibisce espressioni di follia e piacere allo stesso tempo, ride e si lamenta. Poi si denuda, prima mostrando solamente il piccolo e sodo seno e poi rilevando tutto il suo corpo in tutta la sua splendente nudità. Il capannello di persone continua a ridere. Tutti sono presi da una strana ilarità, la indicano, si tengono la pancia dal ridere. Ci siamo dimenticati di dire una cosa. L’avvenente ragazza ha uno specchio in mano rivolto verso l’interno della grotta. Il suo scopo è incuriosire un’altra donna che, scandalizzata dal comportamento insolente del fratello, si è rifugiata là dentro. Un semplice capriccio da signore viziate, se non fosse che quella là dentro e Amaterasu, dea del sole, e che la sua scomparsa ha determinato il buio universale. Hai detto niente. E anche la nostra selvaggia danzatrice, là fuori è una dea: Ame-no-Uzume. Cose che accadono tra gli dei. Pare di stare a un festino, e sono in ballo i destini universali.

Questo è il racconto per come lo ricordo, a memoria. Avrei potuto esordire con un più utile nozionismo nell’introdurre la più antica opera letteraria giapponese: il “Kojiki”. Ma già di letteratura si tratta? O semplice utilizzo della scrittura per raccontare soggetti mitici, tra rielaborazione letteraria e memoria collettiva? Prima di tornare alla strana danza del preambolo della splenida e folle Ame-no-Uzume, qualche nozione storica ci tocca sentirla.

Il “Kojiki” – come dicevamo – è il testo letterario e storico più antico della letteratura giapponese. Siamo intorno al VII secolo dopo Cristo. Il titolo “Kojiki” è composto da tre caratteri (古事記) che letteralmente significano “vecchie cose scritte”, in quello stile sintetico tipico della lingua giapponese. Ne esiste anche una versione in cinese il “Nihon shoki” (日本書紀 ), lingua della cultura di corte del periodo, ma si differenzia per stile e tono e ha solo alcuni punti in comune con il “Kojiki”.

Tradizione vuole che l’opera venne commissionata dall’imperatore Tenmu e redatta nel 712 da Ō no Yasumaro. Lo scopo era politico e documentario: tracciare la linea di discendenza imperiale legandola agli antenati divini e mettere un po’ ordine nelle conoscenze sul mondo divino e umano.

La seconda e la terza parte del “Kojiki” sono a tratti noiose, per la “vertigine della lista” in cui qualche volta si impantana la lunga serie di discendenze di principi e principesse. Ma la prima parte è di grande interesse narrativo e antropologico. Certo, se non direttamente Ō no Yasumaro, qualcun altro prima di lui deve aver inventato queste storie in preda a qualche sostanza allucinogena.

Alcuni punti del “Kojiki” sono bellissimi nella loro corporea concretezza, nella loro fervida fantasia, e soprattutto nella totale celebrazione del corpo e della corporeità dell’Universo (ammetto, questa è una mia interpretazione). Tra stralci poetici, dove l’universo è un fiume oscuro, e battibecchi fra divinità (peggio dei nostri dèi olimpici), si tocca spesso il tono della farsa, della commedia sboccata, “dionisiaca”. Anzi, “alla Susanoo”, una specie di Dioniso giapponese, fratello di Amaterasu. A causa sua la nostra dea del sole offesa ha deciso di rintanatasi in una grotta. È proprio Susanoo, insolente, restio a seguir le regole, a comportarsi non esattamente da gentiluomo:

Poi (Sunanoo) defecò nella sala ove ella osservava i riti della somma libagione. Amaterasu grande sovrana e sacra non gli rimproverò queste malefatte, anzi si sforzò di giustificarlo: “Sembra merda, ma in realtà il mio caro fratello si è ubriacato e ha vomitato dappertutto. E nei campi ha rotto gli argini e ostruito i canali, convinto che fosse terra tolta alle colture”.

Insomma, finché si tratta di ubriacarsi un po’, la dea del sole avrebbe anche potuto portar pazienza, ma Susanoo continua senza sosta a insozzare la coltura del riso, distruggere i campi e gli argini delle risaie, dimensione sacra perché fonte di vita. Amaterasu non poteva non perdere la pazienza, siamo onesti.

In altri episodi, dagli scarti del corpo e da parti di cadaveri di altri dei, si generano pezzi di mondo, perlopiù isole che andranno a formare l’arcipelago giapponese. Non di rado, in questa creazione bizzarra, si cita il didietro come fertile punto da cui rinasce la vita (e per “didietro” si intende proprio il sedere di qualche divinità stecchita o assassinata, ovviamente).

La concretezza del “Kojiki” lo lega al folklore, ai racconti popolari. Vibra intenso nel tumulto degli elementi naturali e della rigenerazione continua tra ordine e caos.

Di lì a poco avremmo assistito allo sviluppo di un’estetica estremamente raffinata, già matura, nella letteratura di corte dell’epoca Heian, stracolma di dame e poetesse considerate a posteriori tra le principali autrici della letteratura nipponica. Ma quella vena tellurica, sfacciata e corporea del “Kojiki” non si perderà mai nella cultura giapponese. Rimarrà sempre abilmente mimetizzata nelle eleganti astrazioni. Per fortuna.

 

Lascia un commento