Lo “Specchio di Dioniso” in Asia Orientale

Le categorie Apollineo e Dionisiaco applicate a Buddhismo, Taoismo e Shintoismo

La famosa diade concettuale di Apollineo e Dionisiaco esposta dal filosofo Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia, ha avuto nel corso del Novecento e oltre una gran fortuna nel pensiero filosofico, imponendosi come una lente potente per analizzare le tensioni alla base della cultura occidentale e arrivando a influenzare anche letteratura e arte. Il concetto di Apollineo, che trae il suo nome dalla nota divinità greca, rappresenta il principio della razionalità, dell’ordine, della distinzione dei confini individuali e del sogno controllato. L’Apollineo è contrapposto da Nietzsche al Dionisiaco, in onore all’omonimo dio del vino e dell’estasi, principio che incarna al contrario la forza primordiale dell’ebbrezza, della dissoluzione dell’io nell’indistinto, della spontaneità naturale e della frenesia orgiastica.

Queste categorie, coniate dal filosofo tedesco nate per decifrare l’anima greca e quindi occidentale, a parere di chi vi scrive rivelano una sorprendente capacità euristica se con un salto concettuale un poco azzardato vengono applicate a tradizioni filosofiche e religiose dell’Asia Orientale.

Come vedremo di seguito, in questo quadro comparativo il Buddhismo emerge come un’espressione quasi paradigmatica dell’impulso Apollineo, mentre tradizioni e forme di pensiero come il Taoismo cinese e lo Shintoismo giapponese incarnano, a modo loro, l’essenza del principio Dionisiaco.

Ma occorre andare oltre questa semplificazione. Ovviamente, tali concettualizzazioni vanno spogliate del loro valore culturalmente connotato alla mitologia classica e al contesto del pensiero occidentale, e occorre farne categorie astratte, a nostro uso e consumo.

Apollineo e Buddhismo. Il Buddhismo, nella sua essenza filosofica, è una via di liberazione attraverso il controllo della mente e la comprensione della realtà come realmente è, oltre l’illusione. La sua diagnosi dell’esistenza umana è chiara. La vita è dukkha (sofferenza, insoddisfazione), causata dall’attaccamento e dal desiderio (tanha). La via per estinguere questa sofferenza è un processo rigoroso e introspettivo che mira a dissolvere l’illusione più potente, vale a dire quella di un “io” permanente e separato che risulta essere nient’altro che un’ombra.

Concetti della dottrina del Buddha come l’anatman (il “non-io”) e la śūnyatā (la “vacuità”) rappresentano l’apice di un “nichilismo apollineo” che segnalo la direzione verso una lucida disintegrazione dell’ego individuale, riconosciuto come un aggregato transitorio. La meta finale, il Nirvana, è lo stato di quiete assoluta, il “cessare” di ogni brama, un’estinzione delle passioni, appunto di apollinea natura, di un mondo che si manifesta in forme pure, liberato dal caos del divenire. Anche la pratica meditativa buddhista, con la sua enfasi sulla disciplina mentale e sul distacco, è finalizzata a imporre ordine sul tumulto interiore della psiche.

Dionisiaco, Taoismo e Shintoismo. In netto contrasto, Taoismo e Shintoismo abbracciano il flusso caotico e spontaneo del mondo, celebrando proprio quella natura di contrasti e di flusso vitale da cui il Buddhismo cerca di emanciparsi e di salvarci.

Il Taoismo filosofico, giunto al suo apice con il pensiero di Zhuangzi (IV secolo a.C.), eleva la spontaneità a virtù suprema. Il saggio taoista non lotta contro il mondo, ma si conforma al Dao, il “Corso” naturale dell’universo, in modo fluido e senza sforzo, come un pesce nell’acqua. Questa adesione comporta un rifiuto delle convenzioni sociali, delle etichette morali rigide e della razionalità eccessiva, a favore di un’estrema libertà individuale che sfiora l’anarchismo spirituale. Tuttavia, fin dalle origini, questa filosofia si intrecciò con un sostrato di credenze popolari, sciamanesimo e pratiche magiche che miravano a manipolare le forze vitali del cosmo.

Nel parlare di Shintoismo, dobbiamo innanzi tutto prender coscienza che si tratta di una parola “artificiale”, di una sistematizzazione di credenze variegate, formalizzate come religione di stato solo nell’era Meiji (a partire dal 1868) a fini politici, ma che affonda le sue radici in un animismo arcaico.

Si tratta essenzialmente di un culto senza una teologia sistematica, che venera i kami, le innumerevoli divinità o spiriti che abitano la natura (montagne, fiumi, alberi, rocce). Prima della sua sistematizzazione moderna, lo Shintoismo era un mosaico di culti locali che condividevano tratti sciamanici di probabile origine centro-asiatica e siberiana, un sostrato comune a molti popoli dell’Asia Orientale.

La natura dionisiaca dello Shinto è palpabile nei suoi miti fondativi. Tra i vari, il racconto mitico della dea del sole Amaterasu, che viene attratta fuori dalla grotta in cui si era nascosta da una performance orgiastica di un’altra dea, Ama-no-Uzume, la quale si esibisce in una danza estatica e provocatoria, spogliandosi fino a restare nuda, scatenando le risa fragorose degli dei.

Questo episodio è un probabile retaggio di figure sciamaniche di tipo matriarcale, dove l’ebbrezza e la sessualità sono strumenti di salvezza collettiva e di contatto col divino. Allo stesso modo, il dio Susanoo, fratello di Amaterasu causa della sua fuga nella caverna, incarna il caos dionisiaco più puro. Dio impetuoso e distruttivo, in un accesso d’ira defeca nel palazzo dove viene preparato il riso sacro, profanando il rituale in un gesto di sfrenata ribellione. Anche l’uso rituale del sakè, come veicolo per la perdita dei freni inibitori e la comunione con il divino, è un tratto che ricalca la perdita di sé e che accompagna da sempre tutta la ritualità della religiosità autoctona nipponica.

Un’analogia azzardata. Applicare le categorie di Nietzsche alle tradizioni asiatiche è un’operazione intellettuale azzardata, che rischia di forzare sistemi di pensiero in uno schema estraneo. Tuttavia, l’analogia si rivela incredibilmente calzante e performante, a parere di chi vi scrive.

Il Buddhismo, con la sua ricerca di un ordine metafisico oltre il velo di Maya e il suo metodo di autodisciplina per trascendere il desiderio, incarna l’impulso apollineo di fuggire dalla brutalità dell’esistenza attraverso la forma e l’intelletto. D’altra parte, Taoismo e Shintoismo che, al contrario, abbracciano l’esistenza nel suo flusso immanente e caotico, dissolvendo l’individuo non in un nulla metafisico, ma nell’ebbrezza di una natura divinizzata e spontanea, in un’espressione tipicamente dionisiaca.

In questa luce, le tradizioni dell’Asia Orientale non appaiono più come mondi esotici e irriducibili all’occhio di chi li guarda da questa parte di mondo, ma come specchi lontani che riflettono, con linguaggi differenti, la stessa eterna dialettica umana tra l’impulso a dare ordine al mondo e il desiderio di fondersi con il suo caos primordiale.

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