Plauto, Leopardi e il ribaltamento ironico

I “tipi umani” della commedia invitano a prenderci meno sul serio

plautoDopo aver evitato con qualche riserva la commedia anche nei periodici ritorni ai classici, di recente mi sono ritrovato Plauto di fronte, e con un malcelato senso di colpa ho dovuto cedere alla lettura.* Gli anni passavano e la ripromessa di leggere qualcosa in proposito continuava ad essere disattesa. Ma facciamo un passo indietro. Chi è Plauto? Col nome incerto di Tito Maccio Plauto vengono tramandate un gruppo di commedie di un autore nato tra il 255-251 a.C a Sarsina e morto intorno al 184 a.C. I particolari della biografia interessano poco in questa sede e anche le complesse vicende filologiche dei suoi scritti giunti fino a noi. Come era consuetudine allora, gli autori latini prendevano in blocco trame e intrecci della commedia greca e apportavano adattamenti e contributi personali, senza che questo procedimento fosse inteso come segno di poca originalità. E così fece Plauto, anche se è ormai opinione comune che l’apporto di originalità romana, infuso dall’autore latino alle trame greche, abbia costituito la base di veri e propri clichè passati poi in tutto il teatro moderno e contemporaneo occidentale.

Cosa succede nelle commedie di Plauto e cosa abbiamo imparato ad aspettarci in generale dalla commedia? Innanzi tutto, il ribaltamento di un ordine precedente, uno stato di cose sconvolto da eventi inglobati in una trama del tutto e volutamente prevedibile (tale prevedibilità rientrava nella convenzione autore-pubblico e agevolava la comprensione). A Plauto non interessa penetrare nell’interiorità degli individui che compaiono in scena: i suoi personaggi sono tipi ben riconoscibili, maschere libere da problematicità introspettive.

Nelle commedie plautine, dicevamo, si ritrova questa prevedibilità d’intreccio dove una situazione di base entra in fase critica (il bravo figlio diventa uno sperperatore delle sostanze paterne mentre il padre è lontano) e si ribaltano i valori (in luogo della parsimonia e della laboriosità, la spensieratezza, il festeggiamento continuo e irresponsabile). Il pubblico, nonostante gli espedienti comici e il divertimento da essi derivato, non poteva non provare disagio per la violazione di quei valori e certamente si aspettava un lieto fine.

E Plauto non è certo un rivoluzionario in questo senso: in un modo o nell’altro, il proseguire delle scene riporta ad un ordine di valori appropriato, seppure con una certa indulgenza per chi aveva commesso sbagli. Attraverso Plauto, e con lui da tutta la commedia occidentale, possiamo però trarre utili suggerimenti. È l’ironia il più efficace strumento di ribaltamento dei valori. Ed è l’ironia che è mancata forse nella difficile accettazione della “nuova” (ormai, in verità, secolare) visione dell’uomo dopo il suo reinserimento nel mondo della natura.

Come specie ci siamo sempre presi troppo sul serio. Ancora oggi a ragionevoli argomentazioni o a veri e propri indizi indiscutibili intorno alla natura materiale del pensiero e all’origine delle emozioni, all’aspetto “cerebrale” e sociale della nostra personalità, reagiamo con disagio. Non solo “l’uomo di strada” (maschera anch’essa plautina e quindi pesantemente stereotipata) fatica a liberarsi dai millenari fardelli culturali e psicologici del dualismo corpo-anima, o più modernamente corpo-mente, ma anche coloro che riteniamo uomini di cultura – e forse proprio per quello – paiono manifestare una certa insofferenza nel considerare i prodotti della loro nobile e amata cultura da un punto di vista puramente naturalistico, antropologico, biologico.

Forse hanno sbagliato e continuano a sbagliare da un punto di vista comunicativo coloro che cercano di divulgare la conoscenza dei risultati della genetica e delle scienze naturali che sempre più inequivocabilmente ci restituiscono l’immagine di un “uomo macchina” degno di stare accanto a quello dell’illuminista La Mettrie, del tutto naturale e finalmente svuotato da ogni traccia di trascendenza. Questi fatti sono tremendi e, se raccontati con un tono pesante, possono apparire tragici. Ma non è la tragedia il registro giusto per comunicarli e soprattutto per agevolare una nostra presa di coscienza in proposito. È la commedia il registro migliore, l’autoironia.

Abbiamo sì ribaltato i valori come avviene sulle scene del teatro comico, ma lo abbiamo fatto con un tono decisamente impostato e serio. Non si combattono efficacemente le paure dei bambini ridimensionandole e mettendole in ridicolo? Cosa aspetta, dunque, la pubblicistica scientifica e l’umanità tutta a lasciarsi andare a questo salutare bagno di autoironia?

Così continuiamo a costruire schermi tragici tra noi e la realtà, conflitti cosmici di cui noi siamo il centro e la ragione del Cosmo (religioni), trame dove il vasto universo è stato appositamente confezionato per noi da divinità buone e inaccessibili e dove, anche nel superamento del divino, l’essenza dell’uomo è sempre irriducibile alla materia. In tal modo non ci accorgiamo neppure di quanto questo perseverare nel ruolo di prima donna sia risibile e, sotto certi punti di vista, fonte di potenti intrecci di comica ilarità.

Lo aveva capito Giacomo Leopardi, in una delle Operette morali, il Dialogo di un folletto e di uno gnomo. In questo breve scritto il folletto, incontrando lo gnomo Sabazio, gli svela la ragione del suo peregrinare: “mio padre m’ha spedito a raccapezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini: perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga, e in tutto il suo regno non se ne vede uno”. Lo gnomo non sa ancora l’amara (per noi) verità. “Voi gli aspettate invan: son tutti morti…” risponde il folletto, “[…] parte guerreggiando tra lor, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano […]”.

Già il folletto ha imparato la lezione di Darwin: “tu che sei maestro di geologia, dovresti sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochissimi ossami impietriti […]”. Eppure, scomparsi come altre “qualità di bestie” oggi estinte, gli uomini “credevano che il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli”, dice lo gnomo. Infatti, ribatte il folletto “e non volevano intendere che egli è fatto per li folletti”. Lo gnomo è visibilmente contrariato e convinto a sua volta che il mondo sia venuto alla luce per la sua specie. Ma la contesa finisce in breve, dopo che anche lo gnomo riconosce l’insensata pretesa: “Ben bene, o che facciamo o che non facciamo, lasciamo stare questa contesa, che io tengo per fermo che anche le lucertole e i moscerini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie”.


* Vecchi appunti di lettura rivisti pubblicati anche in “Nichilisti innamorati” del 2014.

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