Apprendimento e didattica delle lingue, tra innovazione e tradizione
Apprendere, una delle attività” principali della vita animale (uomo compreso). Da sempre campo di ricerca della psicologia, l’apprendimento, come tutte le funzioni complesse, viene indagato anche nei suoi presupposti neurobiologici e nei suoi risvolti comportamentali in relazione all’ambiente (etologia). Il processo di apprendimento comporta una modificazione, più o meno permanente, del comportamento, partendo da i più semplici riflessi di base, per arrivare ad acquisire contenuti e schemi comportamentali che richiedono un’organizzazione complessa di informazioni. Tra i processi di apprendimento complessi possiamo senz’altro annoverare l’acquisizione del linguaggio, capacità che si concretizza nelle lingue naturali, sia essa la lingua materna o lingua straniera acquisita in età diverse della vita.
Circostanze molto concrete di ambito professionale, mi hanno portato negli ultimi tempi a riflettere su questioni di didattica delle lingue per adulti. L’offerta di corsi di lingue destinati ad un pubblico eterogeneo e dalla durata limitata, ci hanno portato a riflettere sull’efficacia dell’insegnamento e dell’apprendimento delle lingue.
Quella delle metodologie di insegnamento delle lingue (o, se guardata dall’altro, lato, dell’apprendimento) è questione antica, ma oggi decisamente attuale, se si pensa che una conoscenza sufficiente di lingue franche come l’inglese, l’arabo, il cinese, è diventata utile persino nella vita quotidiana a causa dei massicci flussi migratori, e non solo per coloro che hanno orizzonti internazionali di lavoro e relazione.
È noto che lo stile cognitivo non è lo stesso per ogni individuo: alcuni di noi apprendono meglio con un approccio “analitico”, altri con un approccio “globale”.
Nella didattica delle lingue si sono succedute varie “mode”, e dal più tradizionale metodo formalistico (per conoscere una lingua occorre innanzi tutto conoscere le regole che permettono di formare espressioni dotate di senso), passando per i metodi diretti e comunicativi che prevedono la presentazione della lingua in modo diretto e intesa come “competenza” e non come insieme di regole astratte. Su questi concetti si basano, tra l’altro, i Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue.
Oggi domina, più in ambito professionale che nella scuola pubblica, un mix di metodologie comunicative dirette. Si espone il discente alla lingua, integrando solo qua e là con spiegazioni sintattiche e grammaticali, mirando a far acquisire la lingua in modo naturale. Niente o poche regole, nessuna lista lessicale da memorizzare, ma proposta di una lingua viva da usare che, secondo le intenzioni, dovrebbe portare ad una fissazione spontanea.
Ma nei contesti suddetti (professionali, target di adulti), le buone intenzioni delle metodologie comunicative dirette non sembrano dare i risultati sperati. Basta guardare il dibattito in rete e nella relativa produzione editoriale che cerca di proporre metodi e strumenti per ovviare al problema dell’apprendimento delle lingue.
Qui non voglio certo proporre soluzione all’inefficacia di certi approcci didattici, ma posso avanzare alcuni dubbi che mi derivano da una sperimentazione informale e che, per ipotesi di lavoro, voglio provare a generalizzare.
Può sembrare di una banalità sconcertante, ma sapere una lingua è essenzialmente conoscere parole, espressioni (fraseologia) e combinare questi elementi secondo certe regole. Ora, se si pensa ai primi elementi di questo elenco, si capisce come la memoria giochi un ruolo fondamentale nel fornire quel bacino a cui attingere nell’uso concreto della lingua. La complessa relazione tra suono, concetto, forma scritta qui può essere tranquillamente ignorata, soprattutto se consideriamo in sede di apprendimento un’esigenza comunicativa primaria che riguardi contesti, processi e oggetti della vita quotidiana.
Uno dei punti deboli degli approcci didattici comunicativi diretti è proprio lo scetticismo con cui vengono visti gli sforzi mnemonici del discente. Questi sforzi, pare si sostenga più o meno implicitamente, avrebbero un riflesso negativo sulla motivazione del discente che quindi necessita di un percorso agevolato e naturale. A sostegno di questo, si indica spesso l’esempio dell’apprendimento della lingua durante l’infanzia, che sarebbe più rapido e, appunto, naturale. Un vero luogo comune, a mio avviso essenzialmente errato, che non considera come il bambino sia in realtà esposto per anni alla lingua prima di arrivare ad una competenza linguistica reale. Questo processo più lungo di quanto si pensi, risalta maggiormente se viene considerata la fascia di età scolare e l’acquisizione di una seconda lingua da parte del bambino. Anche se rispetto all’adulto il bambino è esposto per una quantità di tempo molto maggiore (nel gioco, nella vita relazionale più libera rispetto all’adulto) i tempi di questa presunta acquisizione “naturale” sono ben più lunghi di quanto non si dica. Quel processo di fatica mnemonica, di cui ho già parlato sulle pagine di questa rubrica in termine generali, viene semplicemente prolungato nel tempo.
Ma la didattica rivolta agli adulti deve essere più pragmaticamente orientata e deve considerare i tempi brevi della vita adulta (sia in termini di parte del giorno da poter dedicare all’acquisizione linguistica, sia in termini di prospettiva futura: in quanto tempo raggiungere certi obiettivi?).
Ecco che partendo da una impostazione pragmatica, quasi contabile, possiamo ragionevolmente impostare un programma, un vero e proprio calendario, di acquisizione linguistica basata sul vocabolario fondamentale di una lingua, (consideriamo, per semplificare, la piena sovrapponibilità lessicale tra L1 e L2). Quante e quali sono le parole e le espressioni di cui un adulto deve impadronirsi (comprensione e produzione) per relazionarsi nella vita quotidiana? E in quella professionale (terminologia tecnica e settoriale)? Se si incrociano questi dati quantitativi linguistici con quelli temporali (tempo di sedute giornaliere di studio e tempo stimato di acquisizione di un numero prestabilito di “dati” e “regole”), la didattica può avere l’ambizione di poter raggiungere alcuni obiettivi in tempi, se non certi almeno più prevedibili, implementando strumenti concreti per raggiungerli (schedatura programmata e organizzata e relativa organizzazione del tempo). Ovviamente integrando alcune importanti conquiste dei suddetti metodi comunicativi diretti, che non vanno certo abbandonati del tutto.
Mi si perdoni l’ingenuità con cui sembra stia presentando una ricetta miracolosa, ancorché di estrema semplicità, peraltro senza una effettiva sperimentazione numericamente rilevante; mi rendo conto, inoltre, che la glottodidattica è affare molto più complesso di quanto non appaia da queste riflessioni e il quadro storico-epistemologico della disciplina è stato solo sfiorato. Vorrei, però, semplicemente porre l’accento sul legame lingua-memoria e sul fatto che le presunte metodologie naturali e induttive con cui si cerca di evitare la fatica dell’apprendimento siano destinate a fallire se prese alla lettera. E non c’è agevolazione emotiva, metodologica, contestuale o tecnologica che tenga.
Dopo tutto, questa considerazione sulla necessità, e perché no del piacere, dello sforzo cognitivo-mnemonico penso si possa estendere più in generale alla formazione (scolastica e di vita) dell’individuo.