Il gioco dell’arte contemporanea
Due pezzi di legno appoggiati sul pavimento sono un’opera d’arte? La maggior parte di noi risponderebbe di no. E due lastre di metallo appoggiate in un angolo? No, sicuramente. È arte una superficie percorsa da segni e macchie casuali, un’immagine pubblicitaria a stampa strappata o replicata all’infinito, un manichino nudo appeso con una corda, e così via? L’arte, fin dalla prima parte del Novecento, ha imboccato ben altre strade rispetto al figurativo tradizionalmente relegato nei confini della tela, nella “porzione” materiale che andava a costituire una scultura o tuttalpiù nella superficie di parete che ospitava l’affresco.
Eppure, il senso comune dell’arte non ha seguito l’evoluzione del mondo artistico e del suo giro economico (milionario) in gallerie ed esposizioni: questi prodotti-situazioni che ci vengono presentati come arte, spesso non sono percepiti come tali al di fuori di quel circuito autoreferente.
Ma l’arte “senza il bello” esiste e in qualche modo va spiegata. Tutto questo smonta secoli di riflessione sulla categoria del bello e sull’esperienza estetica associata all’arte. O meglio, rende la categoria del bello come una questione storica e relativa.
Vi è ancora, però, una certa resistenza a far proprio l’adagio popolare del “è bello ciò che piace”. Questo perché ci pare di scorgere universalmente che nel senso comune persiste un’idea di bello come di qualcosa che sia dotato di particolari proporzioni, di rapporto tra le parti che danno in qualche modo un naturale senso di piacevolezza.
Persino le neuroscienze, tra i paradigmi scientifici dominanti della nostra epoca, tentano di dare una spiegazione neurobiologica alla concezione del bello, come già era avvenuto in termini evolutivi (ci piace la bellezza di un determinato corpo perché potrebbe portarci vantaggi evolutivi e riproduttivi, pur nella variabile estetica contingente alla nostra epoca storica).
Ma qui, in queste brevi note, non parleremo del secolare e fumoso problema estetico, quando di società e di arte contemporanea. Ed è proprio all’interno della sociologia dell’arte che possiamo spiegare la manifestazione artistica del nostro presente e del recente passato.
L’enigma ironico dell’arte contemporanea è il seguente: l’arte non ha forse più niente da dire, ma sa perfettamente come dirlo. Enunciazione paradossale e sibillina che forse diverrà chiara fra poco.
La storia dell’arte contemporanea inizia con lo spostamento del baricentro dal vecchio continente (che rimane però ancora attivo) agli Stati Uniti, in particolare verso New York.
Nel nuovo mondo, l’arte imbocca con decisione la strada iniziata in Europa di ribaltamento dei canoni classici. Si pensi all’espressionismo astratto, nato negli anni Trenta, di cui Pollock è il rappresentante più noto, alla sua poetica del gesto: non ha importanza il risultato, cosa viene rappresentato, ma il gesto, quasi rituale, che lo produce.
Ed è ancora il gesto ad avere importanza nell’arte informale: Lucio Fontana taglia le tele e le mostra. Cosa significano in sé? Nulla. Conta il gesto di rottura con la tradizione.
Continuando con questo elenco esemplificativo, la Pop Art che riprende l’immagine commerciale come nuovo linguaggio universale senza più tenere conto dell’intimità dell’artista (Warhol), o la minimal art (siamo già negli anni Sessanta) che riscopre la semplicità dei volumi e primitivi.
Non solo il senso del bello non si realizza nell’arte contemporanea, ma neppure viene perseguito. Non interessa semplicemente.
Chi vi scrive, pur essendo un “conservatore” ammiratore dell’arte figurativa dei secoli passati, sostiene che vi sia un peculiare senso di piacere che ci può derivare dalla fruizione dell’arte contemporanea: le parole che intorno ad essa si spendono.
I concetti che giustificano quei gesti e quegli oggetti, spesso inerti e qualche volta poco comunicativi, sono la vera arte. Se le pitture del passato erano il frutto di tecnica e perizia su cui si poteva teorizzare a posteriori, l’arte contemporanea nasce prima come parole e poi come gesto-prodotto. Ma, e non so quanto questa posizione sia originale non seguendo la letteratura critica, è la prima parte a costituire prodotto artistico. Installazioni e immagini scompariranno nel passato prossimo futuro, e rimarranno le giustificazioni concettuali che le avranno generate.
Si tratta, è giusto dirlo, spesso di puro gioco intellettuale fine a se stesso (o in qualche caso finalizzato a far alzare la quotazione sul mercato di un certo artista); tale gioco intellettuale non sempre è calato nel contesto storico contingente e frutto dello spirito del tempo, come siamo abituati a pensare l’arte. Il critico che legge oggetti d’arte partoriti dal minimalismo e spiega che gli spazi tra due volumi (un parallelepipedo di legno o di pietra) sono solo “volume in negativo” esemplificativi di una “importanza e valorizzazione del vuoto”, non di significati parliamo, ma di gioco. Di semplice gioco. E vi pare poco?
Se si desidera, quindi, superare quel senso di spaesamento o addirittura di superfluo che ci può cogliere nel frequentare mostre ed esposizioni di arte contemporanea, si consideri che non lì risiede
il senso reale di quegli oggetti e di quelle situazioni, ma nel gioco delle teorie che le hanno generate.