Vite individuali e fluire vitale eterno
Anche coloro che hanno fatto del presente il proprio orizzonte unico, destinandolo ad un godimento di maniera, che hanno assimilato senza scampo la morale della finitudine e pure non si disperano, hanno elaborato nei secoli utili invenzioni concettuali per sopravvivere, pure se illusoriamente, oltre la morte. E per fare questo hanno dovuto convivere con la contraddizione, e persino renderla sistematica e dialettica.
Come di consueto, tutto inizia in Grecia. Almeno è lì che la questione che ci interessa raggiunge un grado di compiutezza dalle quali prendere le mosse. È la pratica cultuale e l’apparato mitico di una nota divinità: Dioniso.
Sembra che l’origine di questa suggestiva divinità si possa far risalire all’ambito cretese pre-greco (Kerenyi, Dioniso, Adelphi 2010) e che lo sviluppo del mito e delle pratiche rituali e cultuali connesse a Dioniso trovi una qualche motivazione concettuale nella scissione della vita secondo due distinti significati.
La vita è zoè (radice di vocaboli come zoologia) ed indica l’esistenza senza ulteriori caratterizzazioni, la catena infinita delle generazioni. La zoè è indistruttibile e perenne e lega, l’una all’altra, le manifestazioni della vita caratterizzata e individuale, la biòs (radice di vocaboli come biografia o biologia). Dioniso, e così tutti i suoi predecessori e successori, non è altro che “l’archetipo della vita indistruttibile” e i culti connessi a questa divinità ne sono in qualche modo una celebrazione.
Il lettore sia indulgente con una tale semplificazione e forse anche imprecisione di un argomento che l’antropologia e la storiografia, nonché la riflessione filosofica, hanno trattato in termini ben più approfonditi di quanto appena esposto sopra. Ma quello che qui interessa è la scaltra appropriazione di una ritualizzazione che consente al materialista di celebrare la propria finitudine, contemporaneamente di ricollocarla nel proseguire senza fine della vita indistruttibile e ritrovare, su un piano di divertimento psicologico ma anche di consolazione, quella dimensione di infinito che differenti forme mentali ritrovano percorrendo ben altre vie (tentando di restituire alla bios la componente di immortalità della zoè).
Facciamo un notevole salto temporale, fino all’Italia dell’Umanesimo. Le opere letterarie da sempre riprendono, piegandole alle proprie necessità artistiche ed espressive, i temi della cultura e della storia sulle quali si sviluppano e dalle quali provengono. E come è noto, l’epoca umanistica e rinascimentale fu teatro privilegiato delle riviviscenze dell’antico, in una varietà di forme che caratterizzarono tutta la cultura colta del periodo. I temi mitologici divengono così canovacci sui quali costruire divertimenti.
Nel 1480, a Mantova, Angelo Poliziano scrive la Fabula di Orfeo. Ancora una volta siamo in presenza di temi e di una trama (destinata alla rappresentazione scenica) molto conosciuti. La discesa di Orfeo nell’Ade per riportare indietro Euridice e la finale perdita di quest’ultima a causa della mancanza di volontà di Orfeo che si è voltato indietro prima di uscire dagli spazi infernali.
Poliziano aggiunge qualche sfumatura: Orfeo, disperato, si dichiara sprezzante per l’amore verso le donne, che d’ora in poi ignorerà (rivolgendosi ad altri tipi di amore). Errore tragico del protagonista: le baccanti, seguaci del dio Dioniso, hanno udito il disprezzo di Orfeo e decidono di sacrificarlo, facendolo a pezzi.
La Fabula si conclude con una baccante che, giunta con la testa di Orfeo in mano, inizia una danza ed un canto, dai ritmi sincopati e veloci, che canta Bacco e la sua estasi.
Si sono cercate interpretazioni metaforiche nella conclusione cruenta e rituale della Fabula di Orfeo, spesso rivolte all’idea di una poesia che sopravviverebbe oltre la morte di chi l’ha generata. Ma qui, forse con una chiave di interpretazione inconsueta, possiamo ancora una volte legare la danza macabra e insieme estatica e felice delle baccanti che esibiscono la testa di Orfeo, come una rivisitazione poetica della fine della vita di Orfeo e della sua continuazione oltre l’orizzonte individuale. La bios termina, la zoè viene ancora una volta celebrata in canti e danze ossessive.
La conclusione di queste note va rivolta al contemporaneo. Un’epoca di individualismo esasperato circoscrive l’orizzonte alla bios e ci impedisce di vedere che la parte (temporale e spaziale) fa parte di un tutto di altro respiro.
Non è la riproposizione di un panteismo consolatorio. Sono la teoria evoluzionistica e la visione naturalistica dell’uomo che oggi portano avanti l’idea di zoè. Ma, nonostante il loro radicamento in termini di visione scientifica, non fanno presa nelle coscienze individuali. Che non sia necessario renderle in danze e restituirne la ritualità di una religiosità ancestrale? Solo con l’autoinganno e il gioco si accettano dolorose verità.