Tradurre, un’abilità (anche) motoria

Sottocodici linguistici, capacità traduttiva e “sinestesie” sensoriali

La capacità di padroneggiare più sistemi di comunicazione verbale è innata nella nostra specie. Individui che conoscono e usano più lingue nel corso della giornata sono un fatto abituale in molte aree del pianeta. Questo fatto è invece difficilmente osservabile in società dove predomina un forte monolinguismo. È il caso di entità statali formatisi storicamente su territori geografici coincidenti con parlanti di una sola lingua, come l’Italia o la Francia, dove le minoranze linguistiche o dialettali, geograficamente separate o diluite nella società, non entrano in competizione con il monolinguismo dominante delle istituzioni o dei mezzi di comunicazione di massa.

Si è usato, non a caso, il termine generico “comunicazione verbale” perché la stessa capacità “traduttiva”, di cui parleremo fra breve, entra in gioco non solo nel plurilinguismo linguistico propriamente detto, ma anche in altri campi dell’uso pragmatico del linguaggio. Anche l’uso di differenti sottocodici e la capacità di effettuare quello che si chiama un code switching (formale, burocratico, famigliare, lingua rivolta ai bambini, ecc) all’interno di in una singola lingua naturale funziona da un punto di vista linguistico e cognitivo in modo analogo alla traduzione interlinguistica. Una semplice perifrasi intralinguistica rappresenta l’altra faccia della stessa medaglia.

Abbiamo accennato, quindi, alla cosiddetta capacità traduttiva. Un’espressione di semplice comprensione, ma che porta con sé qualche interrogativo e ambiguità. Con questa espressione qui non intendiamo tanto la complessa formazione grazie alla quale un individuo è in grado di trasportare un testo, di solito scritto, da una lingua di partenza ad una lingua di arrivo, e che presuppone solitamente una più generica conoscenza delle rispettive culture a cui appartengono le rispettive lingue. Si mette qui in risalto l’aspetto comunicativo e orale del processo traduttivo.

Innanzi tutto, conoscenza attiva e passiva di due diversi codici o lingue non comporta un’automatica capacità traduttiva. Lo sanno bene le persone che padroneggiano un buon bilinguismo qualora venga loro chiesto di tradurre oralmente; questi traduttori occasionali, incompresi, dichiarano di capire bene cosa si dice loro nel codice da tradurre, ma ritengono stressante e decisamente faticoso effettuare una retroversione consecutiva o addirittura simultanea.

Gli operatori del settore (i docenti dei corsi di interpretariato, per es.) (1) ci spiegano, infatti, che la capacità traduttiva è sì legata alla condizione di bilinguismo, ma che quest’ultimo è condizione necessaria, non sufficiente. Occorre, infatti, un reiterato addestramento per acquisire e affinare la capacità traduttiva. Come avviene per qualsiasi comportamento motorio, anche l’abilità traduttiva migliora con la ripetizione e l’instaurazione di automatismi.

Tutto questo ha portato a sostenere che esista uno specifico “traslation device” in termini neurobiologici e che le aree cerebrali impiegate nella capacità traduttiva non siano coincidenti solo con quelle tradizionalmente destinate al linguaggio. A sostegno dell’esistenza di un tale circuito in parte indipendente si possono citare i fenomeni di traduzione anomala che derivano da danni cerebrali, come la traduzione spontanea (si traduce senza rendersene conto) o senza comprensione (si traduce perfettamente, ma si è persa la capacità esplicita di comprensione della lingua tradotta).

Le teorie che prevedono l’esistenza di questo “traslation divice” mettono indirettamente in dubbio anche un assunto, oggi in verità meno assoluto, sulla lateralizzazione del linguaggio (emisfero sinistro) perché sottolineano come, nell’abilità traduttiva e in quella linguistica in genere, anche emotività e aree motorie concorrano in modo determinante alla capacità cognitiva del linguaggio.

Una versione “estesa” (nel cervello) dell’area linguistica verrebbe in qualche modo rafforzata dall’ipotesi dell’esistenza di un “traslation device”, il quale, sviluppandosi in modo correlato ma non sovrapponibile alla semplice abilità linguistica, è empiricamente migliorabile con il suddetto addestramento “motorio” capace di sviluppare automatismi. (2)

Ma che l’abilità cognitiva linguistica non sia poi frutto di aree cosi specializzate come si ritiene da sempre, potrebbero suggerirlo anche una serie di esperimenti condotti nell’ambito della psicolinguistica. Il cosiddetto “test di buba-kiki” (3), ed esempio, dimostra come la maggioranza delle persone correli una forma aguzza ad un suono gutturale e una forma rotondeggiante ad un suono più molle. L’esperimento citato, infatti, consiste nel chiedere ad un soggetto quale delle due immagini mostrate, una da forme aguzze e una da forme rotonde, corrisponda ad un kiki e quale ad un buba. Questa associazione sinestetica avviene anche in completa assenza di un significato delle parole impiegate. Questa associazione ci appare naturale, quasi banale, ma è di difficile spiegazione: perché due ambiti sensoriali tanto diversi, vista e udito, sembrano così naturalmente connessi?

Una spiegazione di questo fenomeno è stata tentata da un noto neuroscienziato indiano, V. S. Ramachandran, che da una spiegazione anche evolutiva di questo fatto. L’attivazione incrociata, spontanea e congenita, tra capacità sensoriali diverse, si sarebbe evoluta in relazione agli ostacoli ambientali legati agli spostamenti (quindi associazione suono-pericolo-spazio) e avrebbe avuto un ruolo determinante nella formazione di proto-lingue all’interno di società di ominidi primitivi.

In seguito a queste brevi riflessioni, possiamo concludere che gli studi neuroscientifici sul linguaggio sono entrati in proficuo contatto con la linguistica e la glottodidattica, nonché con lo studio in chiave evolutiva della capacità cognitive complesse. Come è avvenuto per altri campi, il reciproco controllo incrociato di teorie e risultati raggiunti è stato benefico per entrambi gli approcci disciplinari.

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1 Le considerazioni espresse in questo testo sulla capacita traduttiva si basano in gran parte su L. Salmon e M. Mariani, Bilinguismo e traduzione. Dalla neurolinguistica alla didattica delle lingue, Franco Angeli editore, seconda edizione, Milano 2012.

2 Che si tratti di veri e propri esercizi “fisici”, riguardanti capacità fonetica-articolatoria e acustica, lo mostra la pratica concreta dell’addestramento all’interpretariato, tra cui, per esempio, l’esercizio di ripetizione in leggero ritardo di audio testi nella propria lingua madre, successivamente in una lingua in fase di apprendimento e poi in fase traduttiva, quindi da da una L1 a una L2, previa comprensione del lessico o delle espressioni linguistiche usate in modo isolato e non necessariamente esplicito.

3 Il test si deve allo psicologo tedesco/americano Wolfgang Köhler, ma è reso noto dal neuroscienziato indiano, V. S. Ramachandran che lo ha ripreso.

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