Continuare l’approccio multiforme di Umberto Eco
A distanza di qualche tempo, e per questo al di fuori degli schemi celebrativi d’occasione, posso tornare a parlare di Umberto Eco.
Eco ha goduto per decenni di un’altissima considerazione, soprattutto all’esterno, sia come autore che come studioso. È raro che una tale considerazione raggiunga autori in vita e la perdita di quello che io considero uno dei maggiori intellettuali della nostra epoca ci ha privato di una delle poche figure che permetteva alla nostra cultura provinciale di galleggiare in un contesto internazionale più ampio. Ma queste sono questioni, diciamo così, di marketing culturale nazionale.
Subito dopo la scomparsa dell’intellettuale piemontese, dal dibattito sui social network è emerso chiaramente che la maggioranza dell’opinione pubblica non conosceva i risultati dello studioso Eco. L’attenzione era nel migliore dei casi concentrata sull’Eco romanziere, ma sovente finiva per assumere connotati politici che vedevano in Umberto Eco uno dei soliti professori di sinistra saccenti e arroganti (in realtà il Professore era molto ironico e oggettivamente possessore di una cultura sterminata). Questa considerazione deformata deriva da un senso di inferiorità che sovente fa capolino nella nostra opinione pubblica poco preparata, in particolar modo quando viene filtrata dall’ideologia. Va detto, però, che Eco godeva di una notevole libertà di pensiero e che la sua visione politica era molto elastica e certamente meno definita di quanto gli si è imputato a posteriori da quella parte dell’opinione pubblica.
Come dicevamo, il valore dell’opera dello studioso Eco nei media è passato in secondo piano, ma una semplice analisi superficiale, una rilettura distratta delle sue opere principali, ci fa subito capire che la sua prospettiva, le cui basi fondamentali furono poste negli anni Sessanta del secolo scorso, è ancora potenzialmente molto produttiva.
Più che la sua opera “tecnica” (il Trattato di semiotica generale), è quella mass-mediatica ed epistemologica ad avere ancora oggi un valore attuale. Eco aveva il rigore del pensiero analitico e la visione ampia e stratificata del pensiero continentale, tenendosi in equilibrio tra i due estremi, la freddezza del primo e la tentazione metaforica e letteraria dell’altro. Come è stato ripetuto spesso, univa registro alto e registro basso, ma cosa ancora più importante aveva capito che ogni fenomeno del vivere sociale (che si esplica in segni e diventa in qualche modo comunicazione) è suscettibile di un’analisi attraverso gli strumenti della filosofia. Eco non aveva disdegnato di mettere in campo serissime analisi delle “canzonette” della musica leggera italiana, del successo mediatico di Mike Bongiorno, del fumetto, trattando contemporaneamente di complesse problematiche che riguardavano la concezione della verità e persino “la questione dell’essere” (Kant e l’ornitorinco), accostando, ancora una volta in modo ironico e inconsueto, una astrusa tematica filosofica ritenuta superata, alle più recenti riflessioni sulla comunicazione di massa e la teoria del segno.
Eco aveva capito, è qui sta uno dei suoi meriti maggiori, che la questione filosofica non può solo farsi analisi critica del linguaggio, ma che il “segno”, tramite attraverso cui parliamo e viviamo il mondo, va visto da una prospettiva sfaccettata, multiforme (un sociologo-epistemologo, insomma). Non a caso la stampa internazionale, celebrando la sua scomparsa, ha accostato Eco al concetto di postmoderno, termine che oggi viene relegato alla storia del costume, ma molto in voga tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta del XX secolo. In due parole, il postmoderno ravvisava la fine di certe visioni razionali e oggettive della realtà, di fatto mettendo in crisi (per l’ennesima volta) i presupposti “illuministici” su cui si basa la cultura occidentale.
Ma ancora una volta la sua posizione era quella di un postmoderno sui generis, se postmoderno si poteva considerare, perché pur analizzando, e trovandosi perfettamente a suo agio nel caos del contemporaneo e della comunicazione globalizzata, non pareva proprio rassegnato a gettare la spugna degli strumenti razionali.
Ho taciuto, qui, dell’Eco teorico della traduzione, dell’Eco storico, e dell’Eco critico d’arte e di letteratura, “scrivanie” di lavoro parallelo che si auto alimentavano a vicenda nei libri del professore.
Per avere esperienza diretta di quanto l’approccio di Eco sia ancora necessario, si leggano, in particolare La struttura assente, Opera aperta, Apocalittici e integrati. Al di là di qualche riferimento d’epoca, la validità delle analisi è ancora perfettamente percepibile.
Ma chi avrà il coraggio di mescolare cultura popolare e strumenti di analisi raffinate, semiotica e ontologia, arte e logica, nell’analizzare fenomeni sociali e mediatici della nostra contemporaneità impazzita?