Arguzia, stupore e potere del dialogo salottiero
Quando acquisto libri in contesti non familiari, vale a dire non nelle solite librerie in cui vado, ma in giro per il paese, per bancarelle, in ammuffite librerie di usato, e così via, sono solito mettere una notarella sul luogo e la data di acquisto, in fondo al libro. Pare che questa volta mi sia dimenticato di scrivere questa nota ausiliare della memoria, visto che il libretto Salotti romani dell’Ottocento, scritto da Ludovico Paolo Lemme e pubblicato da una casa editrice che non avevo mai sentito, non riporta né data, né luogo di acquisto. Il volumetto ha “solo” trent’anni, ma pare ben più antico per via della grafica retro. Non è stato, però, il valore antiquario del libro, peraltro nullo, a spingermi a comprarlo (forse a Bologna?), quanto il tema: il salotto culturale.
Sono sicuro che il tema “salotto” rientri nelle tematiche-ossessioni che mi accompagnano da anni, ossessioni per fortuna abbastanza numerose da renderle meno ingombranti nella mia mente.
Il salotto è un’istituzione che mi ha sempre affascinato. In primo luogo per i contesti in cui nacque: soprattutto tra Seicento ed Ottocento (anche se gli antecedenti si perdono nella notte dei tempi), presso una società raffinata e “isolata” dai problemi del mondo. In secondo luogo, ed è questo il motivo principale, il salotto culturale-letterario, artistico o letterario che fosse, portava alle estreme conseguenze l’arte della parola e del confronto basato sulle idee espresse tramite la parola.
Assegno altissimo valore umano, formativo ed estetico alla chiacchiera salottiera: il pericolo che si correva di uno sfoggio di erudizione fine a se stessa, era un valore aggiunto, più che un difetto di questo modo di stare insieme con i propri simili. È noto, infatti, come la discussione intorno a quello che si sa, o che ci si illude di sapere, sia la via maestra per la comprensione di un soggetto e il progresso del proprio punto di vista.
Tuttavia, questo non legittimava la chiacchiera sterile e l’incompetenza. Non era importante in sé l’opinione espressa, ma l’arguzia, la potenza espressiva, la capacità di stupire, far pensare, arrivare a conseguenze inaspettate. Oggi, nell’epoca dei Social Network, chiunque ritiene di aver “diritto” di esprimere una propria opinione riguardo a tutto, senza curarsi se il tema che si vuole dibattere sia conosciuto e se l’opinionista improvvisato abbia una qualche competenza in proposito. È l’equivoco della democratizzazione dell’opinione, che ha svuotato di valore il dialogo potenziale del web rendendolo un chiacchiericcio sterile e colmo di inutili luoghi comuni.
Terminata l’invettiva da copione per i tempi grami in cui viviamo, torniamo al libretto che ho preso a pretesto per parlare di salotti e per il quale devo, dopo tutto, spendere qualche parola.
I “salotti romani dell’ottocento” del titolo, sono in realtà i salotti nobiliari della Roma papalina. Viene esclusa la Roma del regno d’Italia. L’autore si destreggia tra due tendenze contrapposte della cultura romana espressa in questi consessi intellettuali. Da una parte una cultura provinciale, chiusa e discretamente arretrata. L’interesse di scrittori, filologi, pensatori era indirizzato da parte del potere ecclesiastico verso l’antiquaria, l’archeologia e le belle lettere . Era questo, infatti, un campo d’occupazione ritenuto innocuo da infiltrazioni politiche e pensieri troppo progressisti.
La seconda tendenza, contrapposta alla prima, era quella che vedeva Roma ancora nell’Ottocento come meta di tutta la più importante intellettualità europea dell’epoca. Una Roma “turistica” senz’altro, ma anche uno spazio di immaginazione ancora potentissimo.
Accostare i nomi dei tanti personaggi presenti in quegli anni a Roma mette soggezione: per la città eterna soggiornarono Byron, Liszt, Goethe, Ibsen, Stendhal, e così via. Questa presenza fertilizzò in parte il clima culturale dell’Urbe. Anche se una vera e propria cultura autoctona dinamica e innovativa non vide la luce nella Roma del tempo, è indubbio che le tante genialità che vi soggiornarono a lungo apportarono un certo tipo di stimoli. Innanzitutto a se stessi.
Sì, perché Roma era oggetto, più che soggetto e sfondo passivo della vita di tanti scrittori, musicisti e artisti. Dalla Roma pittoresca e selvaggia di Hawthrone, a quella genuina di Gogol’ (contrapposta alle città di grigiore burocratico come quelle di area tedesca e Pietroburgo); Roma era inoltre una città di forte suggestione visiva, dove le rovine di un grande passato convivevano con palazzi moderni.
Il vivere locale si era ridotto a quello di grande villaggio rurale: le greggi pascolavano per le vie, le pecore si abbeveravano alle fontane, i riti religiosi in ogni dove parevano retaggio di altre epoche, molte rovine erano ancora semi-interrate. La nobiltà si permetteva splendide feste, in un clima di pericoloso equilibro tra grottesco e poesia.
Anche la Roma della nostra Italia dormiente conserva parte di quel fascino. Non influiscono solo orgogli nazionalisti nel dire che Roma sia ancora, nonostante tutto, una delle città più belle del mondo, ma una storia che, stratificata, continua a emanare un suo effetto benefico.
Che non si riesca, prima o poi, a far tornare Roma e le tante città italiane, meta non solo di turismo superficiale, ma di soggiorni prolungati da parte degli intellettuali d’Europa? Forse con la ripresa del dialogo ci salveremo dal sonno in cui siamo caduti.