Il libro di M. Raveri, Il pensiero giapponese classico
Oltre cinquecento pagine fitte di storia del pensiero, ma anche di minuziosi analisi antropologiche sul sostrato mitico-religioso autoctono del Giappone. È il contenuto del libro di Massimo Raveri, Il pensiero giapponese classico (Einaudi, 2014). Massimo Raveri è uno dei più noti specialisti di spiritualità e pensiero orientale, ed è docente di Religioni e Filosofie dell’Asia Orientale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il suo testo è un riferimento per il settore, e tra le pagine del libro si trova qualcosa di più della sola storia del pensiero. Raveri ci conduce in un viaggio in cui pensare, credere e vivere sono perfettamente integrati, visto che i confini tra queste sfere dell’esistenza in Asia sono certamente meno sfumati che in Occidente. Almeno in epoche premoderne.
Il pensiero classico giapponese segue tre direttrici che Raveri sviluppa in senso cronologico e nelle quali penetra con minuziosa precisione filologica (cita e descrive decine e decine di testi, indicandocene anche il titolo originale, sovente nelle varie lingue sacre e nel loro percorso di tradizione/riscrizione dal sanscrito al cinese, fino al giapponese).
Le tre direttrici che ci pare di individuare nel libro di Raveri sono essenzialmente queste: la prima è costituita dalla spiritualità e dal sostrato mitico del Giappone ancestrale. Il sostrato autoctono di credenze giapponesi è stato posto in epoca moderna sotto l’etichetta di Shintoismo. A detta di molti osservatori, l’esigenza di creare una compatta unità nazionale verso la fine dell’Ottocento portò ad una vera e propria “invenzione” di una nuova religione, forzando il vario e ibrido insieme di credenze precedenti ad entrare in un sistema coerente e ben definito che in realtà non era mai esistito in questi termini.
Al di là di questa operazione ideologica e politica, è però innegabile che nei testi antichi esista una peculiare cosmogonia ed una particolare narrazione mitico-religiosa, con un pantheon e una cosmogonia che va considerata la religiosità autoctona del Giappone prima della sua ibridazione col Buddismo.
La seconda direttrice di indagine è l’ovvio influsso cinese che, in particolare con Daoismo e soprattutto con Confucianesimo, forgia in modo significativo il Giappone antico fin dall’epoca Nara e Heian. La terza e più sostanziosa direttrice è quella del Buddismo declinato alla giapponese. La “filosofia” giapponese, infatti, fino al XX secolo con l’arrivo del pensiero occidentale, è essenzialmente filosofia buddista. Molte correnti e scuole di pensiero vengono riprese dal contesto indiano e soprattutto cinese, ma sul suolo giapponese mutano e si ibridano in modo decisamente originale.
Il Buddismo giapponese inizialmente è la risultante di una mediazione della Cina e della Corea, non di un contatto diretto con il mondo indiano. Anche il recupero diretto che successivamente avviene delle scritture originali buddiste in pali e in sanscrito, avvenne in gran parte attraverso la mediazione cinese.
Il Buddismo è di per se una filosofia “religiosa” costitutivamente fluida e spontaneamente tendente ad una ramificazione di scuole e dottrine diverse, e i giapponesi non vennero meno a questa tendenza. L’attitudine della cultura giapponese a prendere e rielaborare, si manifestò anche in ambito filosofico e religioso. Degli innumerevoli esempi possibili, citiamo l’opera di Kūkai, monaco buddista che visse nel IX secolo. Kūkai introdusse in Giappone elementi tantrici ed esoterici, e in un primo tempo si contrappose nettamente ad un altro monaco altrettanto noto e importante per la storia del pensiero giapponese e fondatore del Buddismo Tendai, Saichō. La cosa degna di nota, e che a nostro parere non riguarda solo l’attività singola e concreta di questo monaco, ma una generale attitudine della cultura giapponese, è che Kūkai nel corso della vita passò da una certa intransigenza nel ritenere il Buddismo esoterico come l’unico in grado di giungere alla salvezza – qui e ora, non non con la fine del ciclo delle rinascite – , ad un tentativo di conciliazione. Nel suo trattato sui Dieci stadi dello sviluppo della mente, Kūkai compì un’operazione intellettuale di grande rilievo, sorpassando la contrapposizione e risolvendo l’antitesi in sintesi. Il suo tentativo di riorganizzare il discorso sul Buddismo comprendeva tutte le scuole dell’epoca Nara in cui visse, inserendole in un processo evolutivo e coerente. In altre parole, la filosofia di scuole diverse non veniva semplicemente rifiutata come errore, ma posta in stadi precedenti verso l’ultimo e più rarefatto livello di conoscenza.
Tale operazione intellettuale è qualcosa di più di un semplice meccanismo sincretico. La storia umana è costantemente caratterizzata da meccanismi sincretici, in particolar modo nell’ambito delle credenze e delle visioni mitico-religiose. Ma quei processi si iscrivono in una sorta di osmosi culturale spontanea, in un certo modo subita, mentre operazioni come quelle di Kūkai sono frutto di una consapevole assimilazione e rielaborazione, più affini dal punto di vista delle intenzioni e del risultato ad analoghi momenti di recupero della classicità e del suo tentativo di armonizzazione col pensiero cristiano in Occidente.
Raveri non dimentica, qua e là, di mettere in guardia dal considerare il pensiero giapponese come qualcosa di puramente astratto e spirituale. Come fu per l’Occidente, accanto alle sincere ricerche della salvezza, al tentativo di capire il mondo e la realtà, vi era una componente “viva” e politica che influiva pesantemente sul sistema dei monasteri e sui monaci. Il buddismo, accanto a genuine ricerche filosofiche, si fece sovente strumento di controllo politico, piegato ipocritamente alle logiche del potere. Ma questo non può e non deve oscurare la sua avventure intellettuale ed esistenziale.
Impossibile ridurre l’oceano narrativo dedicato al pensiero e sopratutto al Buddismo giapponese nel libro di Raveri in queste poche parole: il percorso che l’autore descrive va ben oltre l’esempio di cui abbiamo accennato sopra. Il pensiero giapponese classico è un testo erudito e di consultazione, che va studiato, più che letto. Un libro faticoso, stratificato e in un certo modo anche nozionistico (nomi, opere, scuole si contano a decine), ma ben scritto e un ottimo punto di partenza da cui iniziare se si vuole penetrare nel cuore del pensiero classico giapponese.