Il libro di J. Brewer, I piaceri dell’Immaginazione.
L’antipatica Gran Bretagna post Brexit potrebbe farci dimenticare che la cultura britannica, spesso definita semplicemente inglese perché anglofona (con buona pace di gallesi, scozzesi e irlandesi), ha dato all’Europa e al mondo grandi capolavori letterari e non solo. Il predominio dell’inglese nel mercato editoriale internazionale, con una produzione letteraria ormai guidata da pure logiche di mercato, contribuisce a renderci la cultura anglofona come troppo invadente, persino imperialista. Occorre anche aggiungere che la potenza di fuoco mediatica del mondo anglosassone, in particolare americana, è stata capace di rendere simili a miti ogni prodotto di quella cultura, anche quando la definizione di capolavori era forse esagerata. Il predominio politico dell’America dalla seconda parte del XX secolo ha contribuito a porre in una posizione di privilegio la letteratura inglese classica, lasciando la restante produzione europea occidentale in mano a specialisti.
Non era tuttavia intenzione iniziare questa nota di lettura con una polemica: pareva utile semplicemente constatare che tra grandezza, fortuna ed esposizione mediatica, non sempre vi è un rapporto di causa effetto ben definibile.
Nel massiccio volume di J. Brewer, I piaceri dell’immaginazione. La cultura inglese nel Settecento (Carocci 2005), troviamo però una vena autenticamente dinamica della cultura d’oltre Manica. Il testo è un affresco sociologico della società inglese del Settecento e del suo particolare rapporto con quella che definiamo “giornalisticamente” cultura: libri, pittura, teatro, musica. È noto, infatti, che più correttamente il termine “cultura” va inteso come qualsiasi prodotto materiale e ideale prodotto da una società etnicamente identificabile, ma quest’uso restrittivo ormai prevale largamente.
Brewer ci spiega che nel Settecento lo sviluppo del commercio apportò notevoli mutamenti nella società inglese. Con una crescita economica notevole, anche il consumo culturale divenne un fatto diffuso, prima nelle città, e successivamente nei centri minori.
Vide la luce in quest’epoca un’editoria in senso moderno, dove processi come vendita dei titoli, questioni come il diritto d’autore, rientravano in un gioco che ormai era diventato anche economico. La categoria professionale dei “librai”, in cui rientrano figura ampie di venditori-editori, andarono incontro ad una certa fortuna professionale che li arricchì.
La lettura, la musica, il teatro cominciarono ad essere considerati dalle classi aristocratiche e dalla borghesia commerciale come strumenti di affinamento dell’anima. Si trattava di una rivoluzione sociologica e antropologica, visto che questa funzione, che a noi pare molto moderna, non era contemplata in queste attività prima di questa epoca. Pittura, musica e teatro erano ritenuti mestieri affini all’artigianato, più che attività caratterizzate da valenza interiore.
Fatto altrettanto nuovo, il libro divenne oggetto molto diffuso nella case inglesi, anche in seguito alla nuova logica commerciale che fu in grado di abbassarne il costo di produzione proprio per una logica di grandi numeri sconosciuta in passato.
Ma non dobbiamo pensare a certi “riti” paludati dell’epoca attuale, dove cultura alta e popolare tendono a scindersi: permane il lato ricreativo nella fruizione dei prodotti culturali. In particolare momenti ibridi tra musica, balli e teatro, rallegrano la vita sociale dell’epoca.
La vita culturale di Londra si arricchisce grazie alle presenza di Caffè, club, librai, periodici letterari, ma anche alla nascita del gossip sulla stampa popolare, che non disdegna però di pubblicare romanzi a puntate.
Nasce persino il concetto moderno di turismo, ancora d’élite, ma sempre più diffuso. Non era per niente scontato nel passato che un viaggio fosse semplicemente destinato alla visita di un luogo, un monumento, un’opera d’arte. I viaggi avevano un’utilità pratica, tuttalpiù religiosa.
Il focus di Brewer sull’Inghilterra è certamente utile, ma rischia di farci perdere di vista che questi cambiamenti erano un fatto europeo dell’epoca. Forse paesi ormai “provinciali” come la penisola italiana beneficiavano in misura minore di questi mutamenti, ma si trattava di processi che avvennero anche nel nostro paese. La Francia continuava a rivaleggiare con l’Inghilterra nel ruolo di centro culturale del continente, e per molto versi questa sfida la vinse, almeno fino alla prima guerra mondiale.