Il Sorgo rosso di Mo Yan
Se lo guardiamo solamente da un punto di vista di “genere”, Sorgo rosso di Mo Yan è senz’altro un romanzo storico. Attraverso la storia di una famiglia e delle vicende di un villaggio nel nord della Cina, si racconta la storia della guerra sino-giapponese e le vicende che videro contrapporsi in una guerra civile i collaborazionisti, i nazionalisti e i comunisti, con cambi di fronte e alleanze a complicare le cose. Ma ci si libera in fretta da questa etichetta. Per Sorgo rosso si devono scomodare etichette un po’ abusate come saga, epopea. Le vicende, infatti, attraversano le generazioni, un tempo lungo enfatizzato anche dalla voce narrante che parlando della sua famiglia ci racconta la storia di suo nonno, sua nonna, suo padre, appellandoli sempre con questi nomi anche mentre narra le vicende dei suoi famigliari da giovanissimi. Queste prospettive riduttive, però, sono adatte ad una quarta di copertina, utili a inquadrare un’opera, ma niente di più. Sono invece del tutto insufficienti per descrivere l’intensità di un libro che da solo spiegherebbe il premio Nobel per la letteratura di cui l’autore fu insignito nel 2012.
Ho impiegato alcune settimane a finire il libro. A tratti per la crudezza della narrazione ho dovuto fare delle pause, turbato e angosciato. Le vicende della guerra sino-giapponese e della guerra civile cinese furono forse più cruente dei quasi contemporanei fatti di guerra in Europa, durante la seconda guerra mondiale. Mi aspettavo la guerra come sfondo, invece la violenza e la distruzione di una nazione sono tra i principali protagonisti del libro.
Sullo sfondo di una campagna ancora ancestrale, dove si scorgono distese infinite di sorgo rosso, cereale da cui si ricava un vino color sangue di alta intensità alcolica, la voce narrante come un cantastorie dei secoli passati ci racconta degli amori della “nonna” e del “nonno”. La prima, la “nonna”, una giovane e avvenente ragazza, in apparenza delicata, in realtà piena di forza e di energia, sfacciata e sanguigna, capace di tenere testa a banditi e invasori giapponesi. Il secondo, il “nonno”, un personaggio quasi fiabesco, prima bandito, poi possidente terriero, e infine combattente e vagabondo di guerra.
Tutto ciò è vissuto attraverso passioni umani fortissime e contrastate: l’amore sfocia sovente in violenza, la rabbia in omicidio. E poi c’è il terrore portato dai “diavoli”, gli invasori giapponesi. Qui si concentrano le immagini più crude del romanzo: torture, stupri, bambini di qualche anno infilzati dalle baionette e lanciati in aria come giocattoli, villaggi distrutti, omicidi di massa. Ma non è una condanna “etnica”. I giapponesi non sono odiati in quanto tali, ma per un fatto casuale e contingente. Oggi sono loro i carnefici, domani saranno altri. E forse i carnefici saranno vittime, prima o poi.
Ci sono alcuni episodi emblematici a questo riguardo. Il “nonno” e il “padre” del narratore, reduci da una battaglia coi giapponesi, riescono a rintracciare un soldato nipponico isolato che vaga nei campi di sorgo. Riescono a disarcionarlo da cavallo e a tenerlo sotto tiro. Il soldato giapponese è un giovane intimorito. Si spaventa, piange, mostra la foto di una bambina e di una ragazza, la figlia e la moglie. Ma in un atto di rabbia improvvisa, il “nonno” uccide a sangue freddo il soldato, imprecando sul cadavere e ricordando che anche le donne e le bambine che ha ucciso lui sono figlie e madri di qualcun’altro. Una vendentta di sangue che non appaga nessuno e aggiunge solo sofferenza alla sofferenza. Oppure, in un altro episodio, uno dei soldati della resistenza che si ritrova a distruggere un accampamento di giapponesi, ricordando che qualche anno prima avevano distrutto il suo villaggio e massacrato gli abitanti. Il soldanto non sente l’appagamento di una vendetta. Prova davanti alla distruzione e alla morte del nemico la stessa angoscia e lo stesso dolore provato alla vista del suo villaggio distrutto.
Anche gli “eroi” della nostra storia, tra l’altro, sono protagonisti di fatti di sangue e di violenza gratuita e insensata, fatti che non li rendono certo innocenti. Questa categoria dell’innocenza, d’altra parte, sembra fuori dall’orizzonte della narrazione.
Questa è una chiave di lettura fondamentale: il mondo degli uomini è naturalmente intriso di passione incontrollata e violenza, due lati di una stessa medaglia, che si manifestano in amori irrazionali e nel desiderio spasmodico di vita, e allo stesso tempo in furori distruttivi e autodistruttivi. Difficile vedere una condanna morale. È quasi la registrazione rassegnata di un fatto, la descrizione paziente dell’essenza dell’umano.
Il racconto è puntellato di scorci della natura, spesso partecipe della sofferenza umana coi propri colori, con una partecipazione diretta, anch’essa ambigua come l’uomo, talvolta benigna, altre volte crudele. Emblematico e spaventoso il racconto dei branchi di cani randagi scappati dai villaggi distrutti che, tornati allo stato selvaggio, si cibano furenti delle centinaia di cadaveri rimasti insepolti e attaccano i villaggi. Ma tutti divorano tutti, in questa battaglia caotica e universale: così i cani diventano di nuovo prede per gli abitanti della campagna affamati, che dai passati compagni animali ora ricavano cibo e pelli per scaldarsi.
Infine c’è la campagna, coi suoi costumi antichi, la magia, i rituali. Il “nonno”, nella sua bulimica voglia di vita, ha una “seconda nonna”, un’amante che vive nel villaggio vicino dalla quale ha vuto una figlia. Lian ‘er, così si chiama la “seconda nonna”, è una ragazza dall’incarnato bruno che a più riprese è vittima di malefici, per liberarsi dai quali intervengono figure non troppo dissimili da guaritori e sciamani dei secoli passati.
Abituati come siamo al trionfare di una morale, dove nel lieto fine prevale il bene rassicurante, o nella tragedia un male implacabile, ci troviamo allo stesso tempo spaesati e confortati nell’ascoltare le vicende ambigue di Sorgo rosso. La vita degli uomini, nelle sue contraddizioni insanabili, è un groviglio inestricabile di amore e morte, di empatia e indifferenza, di bene e male. L’unica cosa che un romanziere può fare e dipingerlo coi colori che servono.
Mo Yan, Il sorgo rosso, ed. Einaudi (Torino) 2014. Traduzione di Rosa Lombardi.