Oriente immaginato, Oriente sognato

Cina e Giappone nell’immaginario occidentale attraverso la cultura pop, il cinema e i videogames negli ultimi decenni del XX secolo

uta_Bad_Dudes_vs_Dragon_Ninja_1988_ERBE_Software_5638_screenshoIntroduzione. La seconda parte del XX secolo, dal secondo dopoguerra in poi, ha visto un progressivo espandersi della mobilità internazionale. In seguito al processo di integrazione economica e socio-culturale che dagli anni Novanta abbiamo cominciato a definire più precisamente come globalizzazione, il mondo si è sempre più rimpicciolito. Il trattato di Schengen e i voli low cost, oltre tutto, hanno reso l’Europa uno spazio unico anche dal punto di vista del turismo. Già la mia generazione che ha vissuto l’infanzia negli anni Ottanta, stenta a ricordare un’Europa di frontiere e passaporti. Tuttavia, malgrado il rimpicciolimento del mondo, la fascinazione di terre lontane rimane. Il turismo di massa non ha fatto che confermare, a seconda delle mode e dei momenti, l’attrazione per quelle terre che incuriosiscono, attraggono, paiono esotiche. Occorre però sempre tenere presente che la categoria di “esotismo” è determinata dal punto di vista, e che qui partiamo dalla visione europea del mondo.

Oggetto di questo articolo, è la visione europea e americana dell’Asia Orientale, in particolare di Cina e Giappone, elaborata in Occidente attraverso la cultura pop,  il cinema e i videgames degli ultimi decenni del XX secolo. Tale visione, quindi, partiva da una auto-rappresentazione (per esempio degli anime giapponesi o del cinema di Hong Kong), si rifletteva nelle dimensioni omologhe occidentali (per esempio nei film di Hollywood di ambientazione asiatica), venendo quindi rielaborata dall’immaginario occidentale in una serie di idee specifiche.

La categoria Occidente\Oriente è antichissima, e gli orientalismi hanno scandito mode, tendenze artistiche, idee politiche, in varie fasi della storia europea. La cosa interessante, è che quelle idee sono in qualche modo transitate nella visione “pop” dell’Asia Orientale e hanno contribuito a dare a questa visione una nuova forma.

Anche oggi che la conoscenza diretta e più approfondita dell’Asia Orientale è diffusa maggiormente, una certa visione stereotipata e l’esoticità di questi paesi sono una componente importante della rappresentazione europea e americana di quella parte del mondo. Ma prima degli anni che hanno visto l’esplosione della globalizzazione e della rete internet, questa fascinazione, che era insieme semplificazione e idealizzazione, produsse una sua visione peculiare, irreale anche se suggestiva e importante da un punto di vista sociologico e in generale rappresentativa di un immaginario popolare.

Perché Cina e Giappone? Per due motivi principali. Innanzi tutto per la frequenza di associazione che lo stesso immaginario occidentale compie di queste due culture. La distinzione culturale e linguistica di queste due civiltà non è sempre ben chiara neppure nel senso comune di oggi, per quanto possa sembrare incredibile. Il senso comune tende persino a considerare la lingua cinese e la lingua giapponese come due lingue vicine, quando è noto che dal punto di vista linguistico sono lingue estremamente differenti e appartenenti a famiglie linguistiche diverse.

La seconda ragione, invece, è storica. I rapporto tra Cina e Giappone sono stati apertamente conflittuali dalla fine dell’Ottocento al termine della Seconda Guerra Mondiale, e lo sono stati in modo latente fino ad oggi. Tuttavia, nazionalismi, antagonismi politici, ragioni di opportunismo geopolitico eterodiretto, non possono negare un dato storico fondamentale: la civiltà giapponese tradizionale nasce dall’unione del sostrato autoctono con gli influssi fondamentali provenienti della cultura cinese del periodo Tang. È infatti impossibile negare che la stragrande maggioranza degli elementi della cultura tradizionale giapponese, formatisi tra l’epoca di Nara e l’epoca Heian, appaiano in qualche modo “cinesi” ad un occhio esterno e siano in pratica rielaborazioni, anche se originali, della cultura cinese. Nel lungo medioevo nipponico, poi, la civiltà giapponese ha preso una via sempre più autonoma, ma quell’eredità iniziale ha continuato a pesare. La classe colta ha continuato a comporre poesie in cinese classico fino alla fine del XIX secolo, riconoscendo alla lingua cinese il ruolo di veicolo dell’alta cultura come accadde al latino in Europa.

L’Asia Orientale come terra di arti marziali. Se c’è un’ottica – deformata e vagamente fanciullesca, soprattutto nella sua controparte occidentale – con la quale l’Occidente ha guardato all’Asia orientale, è quella che possiamo ricavare dai film di arti marziali. Con questo non voglio dire che si tratti di un genere scadente, o di second’ordine. Al contrario, anche quando si possono considerare prodotti di puro intrattenimento, i film di arti marziali mantengono un loro fascino, come avviene per la cosiddetta letteratura di genere. Persino prodotti considerati dai critici come un po’ kitsch, suscitano un certo interesse negli appassionati, compreso in chi vi scrive. La definizione utilizzata sopra di “ottica vagamente fanciullesca” è quindi da intendersi come visione semplificata di una realtà, con l’enfatizzazione di alcuni caratteri e l’assunzione di certi elementi come stereotipi.

Il cinema di arti marziali come genere nasce in Cina negli anni Trenta. Secondo Lu Zhouxiang e Qi Zhang,(1) i film di arti marziali che glorificavano la forza dei guerrieri che praticavano il kung fu, vanno associati “al nazionalismo cinese dopo le varie sconfitte subite dalla Cina per mano delle potenze imperialiste straniere all’inizio del XX secolo. Questo rapporto è stato ulteriormente rafforzato dai film di arti marziali. Nella prima metà del XX secolo, i film di arti marziali hanno contribuito alla costruzione dell’identità nazionale cinese.”

Da mettere in risalto, oltre il carattere auto celebrativo e politico del genere nato in Cina, è la stessa centralità dell’arte marziale tradizionale cinese, il Kung fu. Indubbiamente il Kung fu è uno di quegli elementi che hanno contribuito maggiormente a creare l’immagine pop dell’Oriente, in particolare col successo del genere negli anni Settanta.

Già il termine “Kung fu”, tuttavia, è secondo alcuni problematico. Designa nella definizione popolare l’insieme delle arti marziali tradizionali cinesi, “ma alcuni praticanti e scrittori si oppongono a questo uso, insistono sull’adozione di altre etichette come wushu“. Il termine Kung Fu sarebbe un’invenzione relativamente moderna per includere vari termini dialettali che designavano le arti marziali tradizionali cinesi. (2)

Una svolta nel genere si ha con una pellicola dell’esordiente Akira Kurosawa: Sanshirō Sugata (姿三四郎 Sugata Sanshirō). Uscito nel 1943, narra le vicende del campione di judo, Sugata Sanshirō, ed è una della prime pellicole a ritrarre l’eroe esperto di arti marziali che si sottopone a una disciplina fisica e morale, caratteristiche che diventeranno constanti nella cinematografia di questo genere.

Prima dell’esplosione del genere di arti marziali in America e della conseguente diffusione in Europa di film per lo più incentrati su ambientazioni giapponesi e su figure assimilabili a quelle dei ninja, l’apice della popolarità venne raggiunto con i film di Bruce Lee.

La vicenda dell’artista marziale e attore Bruce Lee è talmente nota che spenderemo solo alcune parole a questo proposito. Nato in America da cinesi di Hong Kong, uindi appartenenti alla Cina cantonese, la sua identità culturale molteplice gli garantì una visione amplia sui gusti e i desideri degli occidentali, cosa che garantì alle sue pellicole un certo successo.

Anche nei film di Bruce Lee è presente la componente di rivendicazione dell’orgoglio del popolo cinese, almeno in una delle pellicole note in Italia come Dalla Cina con furore, del 1972 e diretto da Lo Wei. Il titolo originale è Jīng Wǔ Mén (精武门), traducibile come “La scuola Jing Wu”. Sullo sfondo di una Shanghai di inizio Novecento, il film narra la storia di una vendetta portata avanti da Chen, in seguito all’avvelenamento del maestro di Kung Fu compiuto da traditori cinesi su commissione degli invasori giapponesi. La pellicola, quindi, si inquadra nel filone nazionalista a cui accennavamo sopra, e presenta personaggi cinesi che resistono alla prepotenza dei giapponesi, ritratti in una luce veramente poco lusinghiera.

Le imitazioni delle pellicole più note in cui compare Bruce Lee non si contarono negli anni successivi. Ma ben presto l’attenzione e il mercato spostò l’interesse dalla Cina al Giappone per quanto riguarda il genere arti marziali.

Il patinato cinema holliwodiano nei frivoli anni Ottanta ripropose in innumerevoli varianti il genere della arti marziali. La cosa interessante è che anche quando i protagonisti erano occidentali, era attraverso la guida di mentori e discipline orientali che raggiungevano la forza nel combattimento.

Citeremo un paio di film esemplificativi del genere nel cinema americano. Il primo è la trilogia Karate Kid, diretta da John G. Avildsen. Il primo film della serie esce nel 1984, ed è una pietra miliare nel porre le basi dell’immaginario pop dell’Asia orientale, non solo in relazione alle arti di combattimento. La trama, universalmente nota, richiede poche note di spiegazione. Il giovane e imbranato Daniel LaRusso, trasferitosi da poco in città, è bullizzato da un gruppo di ragazzi che pratica il karate, guidati da un insegnante violento e senza scrupoli. Una sera tra le altre, Daniel viene soccorso da una figura misteriosa che mette al tappeto il gruppo di ragazzi che ha aggredito Daniel. Quella figura misteriosa si rivela essere il vecchio Nariyoshi Miyagi, il vicino giapponese di Daniele e originario di Okinawa; un vecchietto che sotto un’apparenza remissiva cela una notevole abilità nel praticare il karate.

Al di là dei dettagli della trama, nel film compaiono alcuni elementi che continuano ed enfatizzano l’immaginario occidentale dell’Asia Orientale. Il saggio Miyagi, infatti, non aiuta il giovane Daniel solamente da un punto di vista “sportivo” e tecnico. La padronanza del karate, ottenuto in modo indiretto con lavori diversi di cui tutti ricordano il “dai la cera, togli la cera”, arriva anche attraverso un mutamento spirituale interiore, con una visione non convenzionale del mondo che ci circonda. Educare la mano nella pittura di una staccionata di legno, non è altro che un modo per parare i colpi dell’avversario. Ma la violenza non basta. Miyagi è anche un abile coltivatore di Bonsai, i piccoli alberi nani della tradizione giapponese. Forze e sensibilità non sono opposti.

L’Asia Orientale, e il Giappone in particolare, nel cinema di questo tipo è terra di spiritualità, meditazione, viaggio spirituale dentro se stessi. Poco importa, che quella stessa immagine sia frutto di una creazione quasi mitica proprio ad opera dell’Occidente che vede con occhi estranei quel mondo (ancora, e nonostante la globalizzazione) lontano. Nella creazione di un immaginario conta più la suggestione che la realtà.

Di stampo più action, e di impatto decisamente minore, è un altro film che seppure non ebbe un successo paragonabile alla saga di Karate Kid, rende bene una tipologia di film minori, ma ugualmente appartenenti al genere. Il film del 1985 noto in Italia come Guerriero americano (titolo originale (American Ninja, diretto da Sam Firstenberg), attraverso una trama piuttosto semplice e prevedibile, racconta del marine americano Joe Armstrong, interpretato dal giovane Michael Dudikoff, spedito in una base americana nelle Filippine come punizione per il suo carattere ribelle e insofferente agli ordini. Ben presto, la base è vittima di ribelli ostili, capitanati da un poco fantasioso capo detto Ninja Nero. Veniamo a sapere che Joe è un imbattibile praticante del ninjutsu, ovvero l’insieme delle tecniche e delle arti marziali dei ninja.

Anche a voler essere generosi, questa pellicola non è certo un capolavoro della cinematografia. Neppure di quella di genere. È, tuttavia, un insieme di stereotipi che assumono un valore emblematico nella formazione dell’immaginario occidentale sull’Asia Orientale.

La figura del ninja è per certi versi un’invenzione quasi più occidentale che asiatica, perchè passa dall’immaginazione popolare del tardo Ottocento in Giappone, ma poi viene ripresa e arricchita dal cinema e della cultura popolare occidentale. Questa figura ha una verosimiglianza storica limitata nella sua rappresentazione classica: l’unica certezza che abbiamo è che tra XV e XVI secolo si perfezionarono tecniche di travestimento, di lotta armi leggere, di utilizzo di oggetti atti a superare ostacoli che venivano impiegate in pratiche simili a quello che oggi potremmo definire spionaggio. Il ninja è però termine moderno, una parola più antica per riferirsi a queste figure è shinobi.

L’immagine del cinema e nella cultura popolare prende spunto da questa indefinita realtà storica per creare il personaggio del guerriero ninja, spesso vestito con il tipico vestito nero che lascia intravedere solo gli occhi. Il ninja scompare in una nuvola di fumo dopo un’esplosione da egli stesso causata, lancia armi appuntite a forma di chiodo o di stella dalle punte affilate, vola su aggeggi simili a grandi aquiloni.

Alla creazione di questa figura dell’immaginario popolare, ha contribuito anche il mercato dei videogames, in particolare negli anni Ottanta del XX secolo.

Gli anni Ottanta furono il periodo di gloria dei videogiochi arcade, termine che indica le macchine a gettoni o a monete che invasero bar, locali e sale giochi in tutto il mondo, a partire dagli anni Sessanta, ma arrivando all’apice del successo tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta. Buona parte del mercato fu dominato da aziende giapponesi, da qui anche l’utilizzo in chiave commerciale di figure prese della cultura popolare giapponese.

Relativamente alla figura del ninja, citiamo di sfuggita due videogiochi molti noti del genere, Shinobi (SEGA, del 1987), di ambientazione tradizionale, con personaggi e nomi tipicamente giapponesi, e Bad Dudes Vs. DragonNinja (DECO 1988), sempre di produzione giapponese, ma di ambientazione statunitense. I ninja, qui, sono i cattivi, rapitori del presidente degli Stati Uniti.

Il successo di questi giochi elettronici Arcade fu poi accompagnato da una diffusione altrettanto capillare per home computer come il Commodore 64 o le prime consolle di gioco.

Generalmente, le trame di questo tipo di giochi, includono rapimenti di innocenti da parte di bande criminali, e il gioco consiste nel salvare le vittime da parte di temerari eroi abili nelle arti del combattimento.

Nella cultura popolare gli schemi narrativi, siano essi costruiti per opere letterarie, cinematografiche o videogames, subiscono un processo di semplificazione che rende le storie allo stesso tempo banali, ma fortemente connotate nel senso bene\male.

Conclusione. Capire il confine tra realtà e immaginazione nello studio sociologico dei fenomeni della cultura popolare di massa, non è sempre facile. Elementi verosimili convivono con forzate semplificazioni, oggetti assunti come simboli fortemente tipici magari nel contesto di origine risultano del tutto secondari nello spazio dove sono nati. Senza contare che, talvolta, si assiste addirittura ad un percorso inverso: oggetti attribuiti ad una certa cultura da una cultura esterna, “ritornano” a quella d’origine che a sua volta li accetta come autentici.

Questo avviene per i prodotti artistici e dell’intrattenimento come romanzi, film e videogiochi, quanto per la visione della spiritualità e della religiosità che esternamente ci facciamo di altre culture.

Se si vuole capire la rappresentazione di una società di uno specifico oggetto o fenomeno, in questo caso l’Asia orientale, è proprio l’analisi di quei prodotti della cultura di massa a restituirci il vissuto reale di un immaginario collettivo. Quello che se ne ricava non è la “realtà” dell’oggetto in sé, quanto piuttosto l’oggetto immaginato. E l’immaginario collettivo è anche un modo per capire noi stessi nello specchio di sto che sta fuori di noi.


Note.

1 – Lu Zhouxiang, Qi Zhang & Fan Hong (2014), Projecting the ‘Chineseness’: Nationalism, Identity and Chinese Martial Arts Films, in “The International Journal of the History of Sport”, 31:3, 320-335, DOI: 10.1080/09523367.2013.866093

Lu Zhouxiang è docente di Studi cinesi presso la School of Modern Languages, Literatures and Cultures della National University of Ireland, Maynooth. I suoi principali interessi di ricerca sono la storia cinese moderna, il nazionalismo e il globalismo e gli studi comparativi tra Occidente e Cina nel campo dello sport.

Qi Zhang è docente presso la School of Applied Language & Intercultural Studies della Dublin City University, Irlanda. I suoi principali interessi di ricerca sono la comunicazione interculturale, la letteratura cinese e la sociolinguistica.

2 cfr. Benjamin Judkins, “Inventing Kung Fu”, in “JOMEC Journal. Journalism, Media and Cultural Studies.

Lascia un commento