Le solitudini di Tokyo

Giovani suicidi e solitari espatriati: il lato malinconico della metropoli asiatica

Sei AshinaLo sguardo sulla città. Come ha potuto una società collettivista, dove il gruppo è più importante dell’individuo e dove le relazioni e la gerarchia sono fondamentali, diventare una società frammentata, composta da individui che corrono, indaffarati e spesso soli, come atomi isolati che roteano nel vuoto? Tokyo non è il Giappone, è un’eccezione. Come lo sono tutte le grandi metropoli. La vera vita “media”, forse, è quella dei piccoli centri, delle medie città di provincia. Ma Tokyo, in quanto eccezione, contiene ciò che è tradizionale, tipico della cultura del luogo, e allo stesso tempo ciò che se ne discosta. Dopo tre anni che trascorro qui buona parte dell’autunno, comincio lentamente e con fatica a farmi un’idea più profonda della città. Non tanto nelle sue manifestazioni esteriori e nella sua urbanistica, ma in quello che potrei chiamare “l’intima emotività” di Tokyo.

Una pretesa a suo modo comica. Per capire una realtà così complessa ci vorrebbe forse una vita intera. L’occhio esterno con cui guardo la città ha i suoi pregi e i suoi difetti. Il pregio è che non si capisce l’estensione di un mare se ci sei immerso dentro. E nascere e vivere in una cultura è come stare immersi in quel mare. Solo lo straniero vede le cose da fuori, ne coglie i limiti esterni perché quei confini li deve attraversare, non solo in senso geografico, ma in senso profondamente simbolico. Allo stesso tempo, però, risulta difficile penetrare nel cuore di qualcosa che si vede solo da fuori per la maggior parte del tempo. Tanto più che le mie relazioni sociali qui sono limitate e difficili da approfondire.

Metterò da parte il Giappone che piace agli stranieri (quello dei kimono e dei fiori di ciliegio), e anche quello che appassiona me (quello della sua storia e della sua letteratura). Cercherò piuttosto di guardare a questo paese con un occhio diverso. È indubbio che parlando di questo paese finirò semplicemente di parlare di questioni rilevanti per gli esseri umani della nostra contemporaneità. Penso, fin da ora, che le mie riflessioni siano sì innescate da Tokyo, ma che possano assumere una valenza più generale. Non nel senso che le mie personali riflessioni possano rivestire particolare importanza, ma perché la componente “etnica” e culturale potrebbe non essere così determinante.

Togliersi la vita nella solitudine. La riflessione prende il via da un aneddoto, all’inizio per nulla collegato a questo tema. Vagando in rete alla ricerca di film occidentali ambientati nel Sol Levante, mi sono ricordato di una vecchia pellicola del 2007 che vidi quasi per caso, nell’anno della sua uscita. Si tratta di “Seta” (Silk, di François Girard, tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore italiano Alessandro Baricco). Un film colmo di cliché orientaleggianti e romantici, ma tutto sommato un film piacevole.

Dando un’occhiata al cast, faccio una triste scoperta: l’attrice che interpretò il ruolo della misteriosa giovane dama è morta qualche anno fa, ancora in giovane età. Si è suicidata nel suo appartamento a Tokyo. Il suo nome d’arte era Ashina Sei (芦名星), era nata nel 1983 e morì nel settembre del 2020. Non lasciò nessun biglietto e nessuno capì il motivo del suo gesto.

L’immagine di questa giovane donna sorridente che fa capolino dalla “ricerche immagini” sul web mi colpisce molto. Al pensiero che sia morta così, insensatamente, mi coglie una grande malinconia, se non una vera e propria commozione. Mi ritrovo a pensare a lei per il resto della giornata. Certamente una reazione inopportuna e esagerata, visto che si tratta di una completa estranea per me. La morte è un fatto ordinario, coinvolge masse enormi di persone, ogni giorno. Perché le vicende di questa giovane attrice mi dovrebbero turbare così?

Il destino di Ashina Sei mi porta ad indagare sulla sua vita, sui particolari della sua morte. Non per curiosità sterile o per un macabro gossip, ma per comprendere cosa può spingere ad un gesto così disperato, quando si ha ancora buona parte della vita davanti a sé.

Ashina Sei non era stata dimenticata dal pubblico quando morì. Aveva una vita professionale soddisfacente. Bella, giovane e famosa, non avrebbe dovuto avere idee suicide, secondo l’ordine naturale delle cose. Scopro, qui sì su articoli che tendono al gossip, che alcuni mesi prima un altro attore, caro amico di Ashina Sei, si era tolto la vita, sempre nel 2020. Si tratta di Miura Haruma (三浦春馬). L’articolo consultato, ipotizza un senso di colpa difficile da gestire per Ashina Sei, visto che poco prima di uccidersi l’amico l’aveva chiamata, ma lei aveva forse tagliato corto per un impegno, quel giorno. Anche Miura Haruma non aveva lasciato biglietti per spiegare il suo gesto, tranne un semplice addio. Non sono in grado di verificare la veridicità della questione, ma prendiamola così come ci viene suggerito.

A funestare quell’anno concorre un altro evento simile. Lo stesso settembre 2020, anche un’altra attrice, Takeuchi Yuko (竹内結子) si toglie la vita. Qui l’ipotesi è una depressione post-partum.

La solitudine degli abitanti di Tokyo e degli espatriati. Perché riportare questo elenco di suicidi di dubbio gusto? Cosa ha a che fare la vicenda di questi giovani attori con il resto della società “normale”? Molto più di quanto si possa immaginare.

Il contesto del mondo dello spettacolo, qui come altrove, penso abbia forti analogie con la frammentazione della società contemporanea. Il triste destino di questi giovani attori è accomunato da qualcosa che ritroviamo anche nelle vite dell’uomo di oggi, generalmente parlando.

Nel mondo dello spettacolo, le persone spesso affrontano pressioni che possono contribuire a un senso di isolamento: immagine pubblica e vita privata possono differire, il successo e la vita separata in quel mondo può portare a una disconnessione dalle relazioni autentiche e significative, perché diviene difficile capire se le persone sono interessate all’individuo reale o allo status che rappresenta. Le persone in questo stato possono percepire forti crisi di identità. Vari fattori, combinati con la possibile mancanza di un supporto emotivo, possono contribuire a stati di depressione e, nei casi più estremi, portare al suicidio, unica via per sfuggire alla mancanza totale di senso.

La grande massa, l’enorme e inimmaginabile massa, di metropoli come Tokyo, ha disarticolato le tradizionali relazioni sociali, incrementando l’afflusso migratorio, sia interno dalla periferia al centro, sia esterno, di stranieri da altri paesi.

L’inverno demografico giapponese non è solo conseguenza del fatto che i giovani non si sposino più e rinuncino ad avere una famiglia per mancanza di volontà e spirito di sacrificio, ma la loro può essere anche una scelta subita. Conoscere altre persone e socializzare, se si escludono gli anni della scuola, diventa difficile. Si vive per anni a fianco di persone di cui non si conosce neppure il nome. La famiglia e i figli sarebbero una delle poche vie salvifiche di affetto e amore da questa solitudine, ma non sempre si riesce a costituirne una o a farla durare. E certo, la regimentazione della vita nella società evoluta del capitalismo terziario, non aiuta ad avere relazioni al di fuori del lavoro.

Fenomeno particolare rivestono gli immigrati. Premetto che non ho consultato statistiche o approfondito studi sociologici sull’argomento, ma mi baso sulle mie (limitate) esperienze personali. Quindi non ho pretese che queste riflessioni possano avere valore universale.

In questi anni ho avuto a che fare spesso con stranieri, per lo più degli altri paesi asiatici, immigrati in Giappone per lavoro. A differenza dell’immigrazione in Europa, ho avuto la sensazione che le persone si trasferiscano più spesso qui individualmente, non con le famiglie, anche per tempi piuttosto lunghi. Se si esclude qualche studente che viveva la vita con leggerezza, tra sbronze e dormite fino a tarda mattina, la parte sociologicamente più interessante sono stati gli immigrati economici più adulti.

Ho conosciuto persone che da otto o nove anni vivono a Tokyo, in appartamenti condivisi con estranei che salutano appena, mandando a casa, alla famiglia e ai figli, periodicamente parte dei soldi guadagnati.

L’anno scorso ho parlato qualche volta con un’immigrata etnicamente asiatica ma cresciuta in Australia. Ha circa trentacinque, trentasei anni. Pare che sia stata la passione per il Giappone degli anime e dei manga a farla trasferire qui, cinque o sei anni fa. Aveva l’appartamento vicino al mio, e quindi anche senza impicciarmi degli affari altrui, potevo capire qualcosa del suo stile di vita. Lavorava da remoto, andando in ufficio un paio di volte a settimana, trascorrendo interminabili giornate chiusa in casa, da cui usciva solo per fare un po’ di spesa. La sottile parete che ci divideva non mi impediva di sentirla, involontariamente, parlare al telefono per lavoro. Il suo sogno di vivere una vita come quella di un personaggio di anime, si era trasformato in una vita di solitudine. Quest’anno sono tornato a vivere nello stesso edificio, anche se un po’ più lontano dal lei. L’ho vista passeggiare qui intorno. Sempre sola. Vive ancora qui.

Ho conosciuto altre persone che vivono in modo simile, ma come pendolari tra casa e ufficio, dalla mattina presto fino a sera tardi. Ho cercato di capire, con discrezione, cosa ci fosse fuori dal quella dimensione di vita. Poco. Solitudine, molta solitudine.

Conclusioni. Una di queste persone è diventata un amico. Con lui trascorro molte giornate quando sono qui a Tokyo. Gli chiedo come mai, a parte me, non ha creato relazioni di amicizia con altri con cui ha convissuto in questi anni. Mi dice, rassegnato, che le persone vivono nel loro isolamento e sembrano far fatica a comunicare gli uni con gli altri. Giapponesi o stranieri che siano. Lui, senza legami che lo tengano ancorato ad un luogo specifico della città, cambia spesso residenza in base alla convenienza economica. Inoltre, mi confessa che un paio di anni fa invitandolo a bere qualcosa, lo avevo sorpreso e spiazzato.

Penso che le cause di queste esistenze solitarie non siano dovute all’egoismo e alla diffidenza delle persone. Egoismo e diffidenza sono la conseguenza dell’aver creato una società come questa.

Forse non è neppure la “massa” indifferenziata e disconnessa della metropoli la condizione principale in cui queste esistenze “atomizzate” diventano possibili, quanto uno stile di vita imperniato sul lavoro e sul consumismo.

Avete mai sentito prediche ai giovani sul fatto che debbano scegliere percorsi di studi per “trovare lavoro” e non per realizzare se stessi e imparare qualcosa? Forse si corre il rischio di essere accusati di qualche forma nostalgica di neo-marxismo, ma è chiaro che forme mentali come queste subordinano ciò che è umano alla struttura produttiva della società. Quasi una banalità da dire. È dagli anni Cinquanta che molti critici puntano il dito sulla disumana società che avevamo cominciato a creare in quegli anni. Oggi, gli echi di quelle solitudini cominciamo a sentirli anche noi che viviamo in piccoli centri di provincia, in Italia.

Non ho ricette per risolvere problemi così grandi. Posso solo fornire auspici, pensieri personali. L’ideologia neoliberista che ha dominato il mondo negli ultimi decenni ha fallito, perché ci ha reso tutti più infelici. Forse dovremmo aiutare noi stessi e le nuove generazioni nel cercare di creare una società più connessa. Ma per davvero, non come avviene con i social network. Educando ed educandoci all’empatia, alla valorizzazione dell’altro, cercando di dare e di darci concretamente più occasioni e più spazi per stare insieme. Sì, anche spazi artificiali, organizzati.

Forse solo un parziale ritorno ad una dimensione sociale e collettiva della vita potrebbe attutire il senso di solitudine dell’uomo contemporaneo.

Mentre scrivo queste conclusioni, non posso fare a meno di pensare a cosa abbia provato Sei Ashina, l’attrice citata in apertura, nei minuti trascorsi prima di togliersi la vita. È poca cosa, ma è il pensiero di lei ad avere ispirato queste riflessioni.