Che carino!

Sociologia del “kawaii”: dal Giappone al mondo

kawaiiIl significato della parola e i caratteri del “kawaii”. La “Japan mania” degli ultimi anni, veicolata soprattutto da prodotti della cultura pop come anime e manga, ha reso familiare certi termini come quello di cui parliamo qui: il “kawaii”. Dedicherò qualche riga a definizioni un poco scolastiche ma necessarie a capire di cosa parliamo, per poi passare ad un approccio più libero nell’indagine di questo fenomeno. Questo approccio vorrebbe essere ispirato alla contaminazione tra discipline e, soprattutto, caratterizzato da una libertà di seguire tutti gli spunti di interpretazione senza timore di dire qualcosa di poco accademico. La parola “kawaii” è traducibile con l’italiano “carino”, ma nella parola giapponese originale è presente una sfumatura che in qualche modo si perde nella sua resa in una lingua diversa. Una parola, infatti, è anche ancorata al contesto sociale che in cui è nata, e la perdita di questi legami, che ha risvolti anche semantici, porta un certo grado di svuotamento. Cercheremo di individuare più avanti le caratteristiche del “kawaii”, qui ci accontentiamo di definire in generale la parola. L’aggettivo “Kawaii” descrive, quindi, ciò che è “carino”, “adorabile”. Ma ha una sfumatura femminile. Infatti, una ragazza e “kawaii”, ma un ragazzo non lo è, si usa un altro aggettivo (a meno che non si voglia dare una connotazione particolare al nostro commento). Anche l’uso del termine è più frequentemente impiegato da soggetti femminili. Continua a leggere “Che carino!”

La “città diffusa”

Prospettive sociologiche, urbanistiche e culturali per lo sviluppo sociale e umano della provincia

Da qualche anno il dibattito sociologico e filosofico sul rapporto tra locale e globale ha mostrato come alcune realtà socio-economiche e culturali locali siano rimaste fuori dall’enorme flusso di capitali, di risorse umane e di potenzialità culturali che ha avvantaggiato i grandi centri della globalizzazione, in particolare le megalopoli multiculturali. Il tentativo di ri-significare il vissuto locale e concreto (detto in altri termini “l’abitare”) ha portato alle note prese di posizioni identitarie del “piccolo è bello”. Reazioni comprensibili da un punto di vista psicologico e sociale, ma destinate a fallire nel confronto con la realtà. Rimasti fuori dai grandi flussi globali (di persone, di stimoli e di risorse economiche), i piccoli centri reclamano una propria ricchezza storico-identitaria che risale all’epoca precedente la globalizzazione. Ma queste rimostranze, queste legittime aspirazioni e questo orgoglio risorto, sono in grado di mutare la situazione di aree che hanno perso il proprio dinamismo e che, nei casi peggiori, sono divenuti aree socialmente, economicamente e culturalmente depresse? Come è facile intuire, la risposta è negativa. Non basta la coscienza del valore di un vissuto “piccolo” e umano, a donare ai luoghi un dinamismo sociale, economico e culturale che hanno perduto o non hanno mai avuto. Inoltre, la stessa politica locale e nazionale ha sempre meno margine di azione diretta nelle scelte che possono portare a cambiamenti sostanziali su larga scala; occorre dunque pensare ad un’azione diretta inversa, dal basso. Cosa fare, dunque? Continua a leggere “La “città diffusa””