Sociologia del “kawaii”: dal Giappone al mondo
Il significato della parola e i caratteri del “kawaii”. La “Japan mania” degli ultimi anni, veicolata soprattutto da prodotti della cultura pop come anime e manga, ha reso familiare certi termini come quello di cui parliamo qui: il “kawaii”. Dedicherò qualche riga a definizioni un poco scolastiche ma necessarie a capire di cosa parliamo, per poi passare ad un approccio più libero nell’indagine di questo fenomeno. Questo approccio vorrebbe essere ispirato alla contaminazione tra discipline e, soprattutto, caratterizzato da una libertà di seguire tutti gli spunti di interpretazione senza timore di dire qualcosa di poco accademico. La parola “kawaii” è traducibile con l’italiano “carino”, ma nella parola giapponese originale è presente una sfumatura che in qualche modo si perde nella sua resa in una lingua diversa. Una parola, infatti, è anche ancorata al contesto sociale che in cui è nata, e la perdita di questi legami, che ha risvolti anche semantici, porta un certo grado di svuotamento. Cercheremo di individuare più avanti le caratteristiche del “kawaii”, qui ci accontentiamo di definire in generale la parola. L’aggettivo “Kawaii” descrive, quindi, ciò che è “carino”, “adorabile”. Ma ha una sfumatura femminile. Infatti, una ragazza e “kawaii”, ma un ragazzo non lo è, si usa un altro aggettivo (a meno che non si voglia dare una connotazione particolare al nostro commento). Anche l’uso del termine è più frequentemente impiegato da soggetti femminili.
Al di fuori di questa considerazione sociolinguistica, il “kawaii” è diventato altro, qualcosa che va oltre ad una semplice constatazione che qualcosa sia carino, ed è a questo fenomeno che qui ci interessiamo.
Il “kawaii” è diventato un vero e proprio linguaggio espressivo specifico, riconoscibile e inquadrabile in confini abbastanza definiti, anche se non in modo netto. Vediamo di seguito in cosa consiste e perché si è sviluppato in questo modo.
Nel 1974 Yuko Shimizu creò una delle gattine più famose di sempre: Hello Kitty (ハローキティ Harō Kiti). Hello Kitty è la perfetta ambasciatrice del “kawaii” nel mondo: è un personaggio femminile, disegnata con tratti infantili, è assolutamente priva di aggressività, e la gamma cromatica che caratterizza i suoi abiti e gli innumerevoli gadget a lei dedicati, sono da sempre colori associati al femminile. Per il politicamente corretto, questo è certamente un coacervo di stereotipi sul femminile difficile da digerire. Ma alla nostra Hello Kitty non sembra interessare molto, visto che il suo successo dura da mezzo secolo. E a quanto pare, non pare turbare neppure i fan della gattina, come dimostra l’immensa industria che – ben oltre la stessa figura di Hello Kitty – produce abiti, accessori, mode, atteggiamenti, musica pop e tanto altri; e tutto ciò rientra indiscutibilmente nell’universo del “kawaii”.
I caratteri estetici ed esteriori del “kawaii” sono facili da elencare: dolcezza e ingenuità associati all’infantile, una visione della donna stereotipata perché priva di aggressività, una gamma cromatica di colori accesi e uno stile visivo che risulti, secondo i parametri estetici e sociali dominati, delicato, grazioso e adorabile, dai tratti morbidi. Su questa base poi si sviluppano innumerevoli varianti, in qualche modo contraddittorie rispetto al punto di partenza, alcune anche declinate nella direzione del sensuale e dell’erotico.
Ogni oggetto sociale si forma attraverso specifiche dinamiche socio-culturali della comunità che lo produce ed è frutto di una negoziazione continua. Anche il “kawaii” non sfugge a questo destino. Tuttavia, l’interesse che suscita come oggetto di indagine interdisciplinare, trova anche ragioni diverse: il “kawaii” nasce in un contesto molto caratterizzato (il Giappone del boom economico), ma diventa globale ed è possibile assumerlo come paradigma universale di certi atteggiamenti dell’uomo contemporaneo.
La dimensione psicologica e sociale del “kawaii” e i “Cute Studies”. Questo successo duraturo del “kawaii” in patria e nel resto del mondo si spiega con ragioni che vanno oltre l’impulso di un mercato milionario che vi sta sotto e del sapiente marketing che lo sostiene. Il “kawaii” piace, attrae e diverte perché si ancora a certi bisogni umani primordiali, restituisce un’immagine rassicurante e consolatoria dei personaggi e dei rapporti che rappresenta, riduce l’elemento conflittuale e semplifica la complessità della realtà.
Paradossalmente, però, la dolcezza del “kawaii” è anche una forma di ribellione. Essendo sottocultura, o persino controcultura (controcultura intesa come “complesso dei valori e dei modelli culturali che, in una società consumistica, si oppongono a quelli tradizionalmente ritenuti gli unici validi.”), propone un’alternativa, anche se consolatoria e in realtà abilmente cavalcata dal mercato, ai valori dominanti che includono competizione, aggressività, mascolinità.
Non a caso, nell’uso consumistico di gadget, abiti, e make up kawaii, si insinuano comportamenti sociali ritenuti “devianti” che includono ragazze che vestono in ogni occasione abiti vistosamente teatrali, interpretando nella vita quotidiana dei veri e propri personaggi immaginari. C’è, a tale proposito, una pellicola interessante che narra proprio di questo: Kamikaze Girls del 2004, e tratto dall’omonimo light novel.
Quindi, abbracciare uno stile visivo e un’estetica non convenzionali anche nella vita quotidiana, possono costituire un atto ribellione? Chi evidenza gli aspetti critici del “kawaii” punta al contrario il dito contro cose come la rappresentazione stereotipata del femminile, l’eccessiva attenzione alla giovinezza come unico ideale estetico, e a comportamenti che vengono interpretati come fuga irrazionale dalle responsabilità della vita adulta. Fuga e visione stereotipata, in pratica, costituirebbero più una limitazione della libertà individuale, che una forma di ribellione.
Crystal Abidin, ad esempio, sottolinea la mancata opportunità rivoluzionaria della “carineria”, con l’uso opportunistico della visione stereotipata della donna. In Agentic cute (^.^): Pastiching East Asian cute in Influencer commerce, Abidin fa notare che “il potere sovversivo di questa carineria performativa è oscurato dal corrispondente piacere sensuale, dalla docilità romantica e dal desiderio omosociale che le influencer sviluppano insieme alle loro auto-rappresentazioni carine. Enfatizzando continuamente le relazioni stereotipate di genere con i loro partner maschili e le relazioni con i loro seguaci, queste Influencer sono in grado di posizionarsi come non minacciose e sottomesse, quando in realtà stanno tranquillamente sovvertendo queste gerarchie per un guadagno personale.” (East Asian Journal of Popular Culture citato; Volume 2, Issue 1, Apr 2016, p. 33 – 47)
Quale che sia l’enfasi che si pone sui poli ribellione\conformismo, è innegabile che entrambi questi aspetti convivono nel “kawaii”; tolto uno dei due poli, lo stesso “kawaii” cessa di esistere. Ma in queste contraddizioni risiede anche il suo fascino e l’interesse che suscita.
Come fa notare Thorsten Botz-Bornstein in Kawaii, kenosis, Verwindung: A reading of kawaii through Vattimo’s philosophy of ‘weak thought’ “il kawaii è diverso dal cute occidentale perché può includere anche il “cool”. La coesistenza paradossale di debolezza e forza, di cute e cool, è interessante in termini filosofici. Il kawaii non è semplicemente debole, ma è dotato di un proprio tipo di forza.” (East Asian Journal of Popular Culture; Volume 2, Issue 1, Apr 2016, p. 111 – 123).
L’interesse crescente per questo oggetto di studio è ben rappresentato anche negli studi accademici sull’argomento, come dimostrano gli articoli dedicati al “kawaii” sopra citati. Probabilmente anche la componente generazionale ha avuto un suo impatto in questo, visto che gli studiosi attivi in questi decenni sono cresciuti a contatto con fenomeni consumistici che hanno rappresentato il “kawaii” sotto vari punti di vista. Il tema ha assunto una sua dignità accademica, tanto che vi ci si riferisce con un’etichetta appositamente coniata: “Cute Studies”. (Joshua Paul Dale, Cute studies: An emerging field, in East Asian Journal of Popular Culture, Volume 2, Issue 1, Apr 2016, p. 5 – 13).
Rimanendo alla fonte più volte citata sopra, risulta particolarmente significativa la direzione disciplinare propria delle scienze comportamentali, un articolo di Hirosi Nittono. In The two-layer model of ‘kawaii’: A behavioural science framework for understanding kawaii and cuteness, Hirosi Nittono propone un modello a due livelli del “kawaii”: “[…] viene proposto un quadro di ricerca sul kawaii dal punto di vista delle scienze comportamentali. Dopo aver introdotto la definizione del dizionario, la storia e l’uso attuale di kawaii, l’articolo riporta i risultati di un sondaggio condotto tra studenti e impiegati giapponesi sul loro atteggiamento nei confronti del kawaii. Questi risultati e le precedenti ricerche di scienze psicologiche e comportamentali portano a un modello a due livelli che rappresenta il kawaii come emozione e come valore sociale. Questo modello postula che la base del kawaii sia un’emozione positiva legata alla motivazione sociale di guardare e stare con persone e oggetti preferibili, che si osserva tipicamente nell’affetto verso i bambini e i neonati, ma non solo. Questo tratto biologico, culturalmente non specifico, è stato apprezzato e favorito in Giappone da alcune caratteristiche della cultura giapponese. Poiché le ricerche precedenti sulla carineria sono state associate quasi esclusivamente all’attrattiva fisica dei bambini e allo schema del bambino, l’uso del termine “kawaii”, relativamente recente ed esotico, può essere utile per descrivere questo concetto psicologico più ampio.” (“East Asian Journal of Popular Culture”, Volume 2, Issue 1, Apr 2016, p. 79 – 95).
Il “kawaii” come paradigma totalizzante? Come avviene spesso, quando ci si focalizza su un fenemeno specifico, con questa stessa focalizzazione si rischia che l’oggetto stesso della ricerca e le interpretazioni che di esso si danno, si facciano paradigma dominante, sovrapponibile ovunque e comunque. Consci di questo pericolo, non possiamo notare che il linguaggio estetico del “kawaii” abbia invaso gran parte della cultura pop giapponese, e sulla spinta del suo status di influencer culturale globale si stia diramando nel resto del mondo.
Il “kawaii” ha da sempre una nutrita rappresentanza nel j-pop. L’industria del j-pop è talmente effimera e volatile nella sua continua proposta di nuovi artisti e nella relativa breve durate dei fenomeni, che nel presentare esempi emblematici del “kawaii” basandosi su specifici artisti si corre il rischio che gli esempi non solo risultino velocemente datati (questo è inevitabile), ma che quello che oggi appare appunto un esempio significativo, possa rivelarsi nel medio periodo una meteora mediatica con scarso interesse anche sociologico generale. Questo non toglie che a partire dalle famose Akb48 in poi, fenomeno che raggiunse il suo culmine intorno al 2010, si giunga anche alla situazione con la presenza continua di gruppi di ragazze ispirate al linguaggio del “kawaii”, e che cessata la moda di uno qualsiasi di questi, ne spunti uno simile in poco tempo, con rinnovato interesse e un nuovo seguito di fan.
Tra i prodotti di punta dell’export nipponico in termini di cultura pop, ci sono certamente gli anime e i manga. Il ventaglio dei generi e dei target di destinazione di questi prodotti culturali e amplissimo, ma il linguaggio del “kawaii” è presente in molta di questa prodizione, specialmente nelle narrazioni che coinvolgono personaggi femminili della fascia d’età liceale.
Anche all’interno della letteratura contemporanea tracce sensibili di “kawaii” possono cogliersi in controluce, seppure non in modo così netto come avviene per il mercato degli anime e dei manga. In alcuni casi, l’ibridazione dei linguaggi in un continuo mediatico tra videogames, anime, manga, romanzi, ha creato veri e propri mondi (ne parla spesso, ad esempio, Paola Scrolavezza in vari interventi).
La generazione di scrittori che si ritrovava giovane negli anni Ottanta ha inevitabilmente assorbito certi spunti estetici e certi modi di vedere le cose. Si fa spesso menzione del “kawaii” in relazione al romanzo d’esordio di Yoshimoto Banana, Kitchen. Ma non approfondiremo questo tema.
Conclusioni. Dicevamo, dunque, che il “kawaii” è definibile in modo articolato. È linguaggio estetico che si esprime in un insieme di mode e atteggiamenti ed è impiegato in una variegata serie di prodotti della cultura pop. Ad uno sguardo superficiale, tutto ciò può essere declassato a fenomeno passeggero e frivolo, guidato soprattutto dal mercato che lo sostiene. Ma il “kawaii” cela in realtà profondità inaspettate che riguardano la psicologia individuale e collettiva: dai richiami ancestrali alla femminilità, alla giovinezza, all’infanzia – con la dolcezza consolatoria che ne consegue, – passando per il rifugio dalla complessità del reale con la fuga in un mondo allegro e spensierato, e infine, grazie ad una trasversalità multimediale che permette a questi linguaggi di diffondersi in modo ramificato nella cultura popolare, approdare ad un ruolo metaforico ed esemplificativo di certe ansie della società contemporanea. I punti critici che lo caratterizzano, come la visione stereotipata della femminilità e la funzione di fuga dalle responsabilità, non possono mettere in ombra il fatto che anche il nostro tempo generi mondi e utopie. Il “kawaii” è una di queste. E qualcuno dirà: “ognuno ha le utopie che si merita”. Eppure, come si sarà intuito dal tempo speso per mettere insieme questo articolo, chi vi scrive ha tuttavia una certa simpatia per il “kawaii”.