Dai salotti letterari del XVII secolo alla chiacchiera di oggi
In un mondo dove la comunicazione è tanto pervasiva, siamo ancora capaci di conversare, di parlare tra di noi e di trarne reciproco vantaggio e piacere? Nell’osservarci da fuori, cosi intenti in dialoghi muti con gli schermi dei nostri strumenti tecnologici, nel dilagare delle parole che si sovrappongono nel vecchio ma ancora vitale mezzo televisivo e nella vita di tutti i giorni, sarebbe lecito dubitarne. Ma c’è stata un’epoca nella quale questa attitudine tipicamente umana veniva tenuta in gran conto e in cui conversazione e civiltà hanno largamente coinciso. Tra XVII e XVIII secolo l’Europa, prendendo a modello la cultura di corte del Rinascimento italiano, costruiva una società in cui la parola e il rituale dello stare insieme assumevano un valore centrale e fine a se stesso. E l’epoca dei salotti nobiliari, prima puramente frivoli, e via via luoghi di dibattito delle idee, luoghi dove pare abbiano persino visto la luce le idee illuministe.
La storia di questa socialità è affascinante perché contraddittoria. Ne traccia un quadro interessante (scritto magistralmente e ottimamente documentato), la studiosa di letteratura e storia francese Benedetta Craveri, in La civiltà della conversazione (ed. Adelphi). Scopriamo, quindi, che la costruzione di questa socialità da salotto, cosi caratterizzata dalla galanteria e dalle buone maniere, nasceva in seguito alla perdita di una connotazione guerresca e terriera della nobiltà. Questa perdita veniva acuita dalla contrapposizione con il nascente stato assoluto che accentrava il potere, isolandone i ceti nobiliari. Dal momento che non vi era più l’esercizio delle armi e la gestione feudale diretta del potere sul territorio, diveniva necessario distinguere l’aristocrazia dal resto del popolo attraverso il proprio modo di vivere. Un modo di vivere che assumeva anche i caratteri di un preciso ideale. Il paradosso di queste premesse, risiede nel fatto che proprio le capacita individuali relazionali e di arguzia linguistica, acquisirono un peso sempre crescente rispetto al ceto sociale e alla ricchezza, finendo per costituire un potente fattore di ascesa sociale e, potenzialmente, persino di uguaglianza. Per non tacere del fatto che al salotto frivolo del Seicento subentro il piacere dello scambio libero e intellettuale, spazio ormai politico, dove si propagavano le idee illuministe, un seme che avrebbe portato all’autodistruzione dell’Antico Regime.
Molto interessante, perché cosi lontana dal nostro presente, era l’esteriorità teatrale della “civiltà della conversazione”. Teatrale perché si manifestava in forme codificate di comportamento che si ponevano come finalità il piacere di stare insieme. E tale piacere poteva essere raggiunto solo da una ricercatezza, un’eleganza dei modi, un’attenzione particolare per le idee del proprio interlocutore. Attenzione che certo scivolava qualche volta in adulazione o ipocrisia, ma che raggiungeva certamente lo scopo di creare un clima rarefatto e privo di conflittualità. Il saggio della Craveri lascia intravedere i concetti generali qui appena esposti (così letti da chi vi scrive) attraverso una narrazione documentata. Per fare qualche accenno, scopriamo ad esempio che tra le iniziatrici dei salotti nobiliari francesi, a partire dalla prima meta del Seicento, rivesti un ruolo di grande importanza Madame de Rambouillet e la sua famosa Camera Azzurra. Prototipo del salotto aristocratico, la Camera Azzurra rimase nella memoria dei salotti parigini fino alla Francia rivoluzionaria. Ma il testo, dicevamo, è traboccante di aneddoti mai noiosi e di storie (quasi tutte al femminile) di protagonisti e protagoniste di questa “civiltà della conversazione”. Fin qui la Craveri.
Certo, sarebbe riduttivo confinare la civiltà della conversazione al salotto nobiliare francese (e non è questa l’intenzione dell’autrice). La nostra epoca, per quanto riguarda le forme, anche idealizzate, dello stare insieme conversando, deve molto anche al salotto del XIX secolo, socialmente di connotazione borghese, e di impronta artistico-letteraria. Una socialità che tendeva a spostarsi nei Caffè delle città, piuttosto che in dimore private.
Queste brevi note, lo si sarà capito, sono in fondo dettate da un’ammirata nostalgia. E possibile oggi tentare, o almeno concepire, una socialità che ripristini il piacere di stare insieme come lo fu per i salotti del Sei-Settecento (magari anche con la consapevole esteriorità delle forme) e farla incontrare con un dibattito che dal virtuale torni nei reali luoghi di incontro delle persone? La risposta probabilmente è negativa. Onesta impone di ammettere che quella dei salotti rimaneva esperienza elitaria. L’epoca di internet, al contrario, ha reso il luogo comune una componente fondamentale del dibattito pubblico (se cosi si può definirlo). Faceva notare giustamente un noto intellettuale italiano scomparso alcuni anni fa – per questo tacciato di snobismo – che la mancanza di filtri e di selezione nella comunicazione totale, permette anche agli “imbecilli” di avere un peso rilevante nella formazione dell’opinione pubblica e nell’esprimere pareri; o meglio, aggiungo io, nel replicare all’infinito luoghi comuni superficiali. Esercizio di libertà legittima, ma del tutto inutile e persino irritante.
Se la società della conversazione e definitivamente tramontata, ci rifugeremo, magari per un po’, nell’erudizione solitaria, nel piacere dell’arte e delle lettere, continuando a formare noi stessi?