In un libro divulgativo, una dichiarazione d’amore per la cultura giapponese
Giorgio Amitrano è un noto yamatologo, docente all’Orientale di Napoli. Il termine yamatologo forse è ormai desueto: designa uno studioso della cultura giapponese, in particolare della lingua e della letteratura. In questo suo Iro iro. Il Giappone tra pop e sublime, l’autore abbandona i panni dello studioso e si lascia andare un po’. Non un testo freddo, accademico, da specialista, ma un’incursione variopinta in vari ambiti della multiforme cultura nipponica. Quello di Amitrano è un vero, grande amore. Il lettore, al di là del contenuto, percepisce subito il tono incantato nel raccontarci del Giappone. Il libro è inframezzato da riflessioni con qualche nota biografica: da queste scopriamo che la passione per il Giappone iniziò negli anni universitari, che l’autore visse per alcuni anni a più riprese in varie città del paese, e che questa dimensione immaginativa non lo ha mai più lasciato da allora. Ma tale passione si era finora espressa nel linguaggio della didattica universitaria, degli articoli accademici.
Di cosa parla, dunque, Iro iro? Di tante cose. Ed è questo il bello del libro. Siamo abituati a sentire sempre le stesse parole a proposito di una specifica cultura, un mare di stereotipi che da un lato facilitano la comprensione della realtà, ma dall’altro svuotano il significato profondo di una cultura. Al pari degli italiani che percepiscono insofferenza a sentire nominare da uno straniero, dopo pochi minuti di conversazione, le solite parole come “pasta”, “pizza”, “mafia”, “moda”, e così via, qualcosa di simile deve accedere ai giapponesi quando ci si rivolge a loro con le parole-etichette che nella rappresentazione semplificata descrivono il loro modo di vivere e la loro cultura: “sushi”, “samurai”, “anime”, “manga”, “Suzuki”, e così via.
Iro iro, in poche pagine e lungo capitoli tematici, parla anche di tutto questo, ma nel suo disegnare con delicato incanto i tratti della cultura giapponese, racconta anche di letteratura, di cinema, di musica. Sacro e profano, o meglio, erudizione letteraria e cultura popolare convivono nelle parole del libro: le scrittrici raffinate del periodo Heian e la musica enka (un genere popolare, forse assimilabile alla musica melodica napoletana o al liscio), l’arte della calligrafia, il rito sociale del Karaoke, la cerimonia del Tè, e il cinema giapponese con le sue sfumature malinconiche o terrifiche e angoscianti.
Amitrano nomina anche personaggi che ormai fanno parte del patrimonio collettivo dei giapponesi, come la cantante Misora Hibari, ma che per gli stranieri sono solo nomi. Immaginatevi una Mina, istituzione vivente della cultura popolare italiana, ma sconosciuta all’estero. Come è possibile penetrare in profondità in una cultura senza conoscerne anche questi elementi? Ed è questo un altro pregio del libro: permette al lettore di farsi un poco più giapponese, raccontando di quegli aspetti che si potrebbero cogliere solo dopo un lungo soggiorno nel paese.
Secondo Amitrano vi è una peculiarità fondamentale che spiega in parte il successo globale della cultura giapponese: la sua capacità di esprimere la molteplicità delle emozioni, i contrasti, tra trash e sublime, del nostro mondo contemporaneo.
Leggendo questo libro non ci si aspetti, per tanto, un’introduzione seria o seriosa alla cultura giapponese. Ma una chiacchiera leggera, evocativa e affezionata, di un oggetto amato lungo una vita intera.