Bevi Vodka, parla con gli angeli

Nota su Mosca-Petuškì di Venedikt Eroféev

venedikt erofeevUna storia di estrema semplicità. Un uomo, un derelitto, una specie di barbone alcolizzato che compie un viaggio in treno da Mosca a Petuškì, cittadina industriale a poche decine di chilometri dalla capitale. Ma il suo stato di sbronza perenne rende quel viaggio un continuo confrontarsi con i mostri di un’interiorità tormentata (come da cliché letterario). Volutamente banalizzata in questa stringata descrizione, il breve romanzo di Venedikt Eroféev, è un’opera importante nel panorama letterario e culturale di quegli anni. Siamo nella Russia sovietica (1973), ma il respiro dell’opera – un respiro post-moderno, dove il pensiero si disarticola e si frammenta – è del tutto europeo. Prima di concederci qualche dettaglio in più sul libro, parliamo del titolo. Mosca-Petuškì è il titolo originale, ma esistono traduzioni che impiegano titoli riadattati, cercando di rendere quelle sfumature che al di fuori del contesto inevitabilmente si perdono. È il caso della traduzione di Pietro Zveteremich, per Feltrinelli: in quella traduzione ormai classica l’opera diventa “Mosca sulla Vodka”.

Entriamo, in punta di piedi, dentro all’opera. Siamo in un filone affine ad opere già citate in queste pagine (in questo blog): deliri grotteschi alla Witkiewicz, alla Gombrowicz (autori polacchi), ma resi in salsa post-moderna. O meglio – paradossalmente – pre-post-moderna. Il critico Michele Colucci parla di “irrazionalismo misticheggiante”, che affonda a sua volta in suggestioni dostoevskiane. Altri rimarcano la valenza di viaggio iniziatico e di salvezza, pur ridicolizzato nelle sue forme.

Venedikt, il protagonista del tutto omonimo dell’autore, è un alcolizzato. Ma è anche un intellettuale, come dimostra il suo citare di autori, tra un’allusione e l’altra. Veniamo a sapere che a Petuškì vive il suo figlioletto e la sua amante. Venedikt, come ogni venerdì, si dirige verso quella meta “metafisica” che, nel suo linguaggio costantemente intriso di simbologie bibliche, diviene terra di delizia e salvezza. Un registro alto mescolato alla volgarità ci accompagna nei monologhi, veri e interiori, del protagonista. Egli parla con gli angeli, con Satana, con la Sfinge, con reali passeggeri, come lui derelitti alcolizzati. Il confine tra immaginato e reale si confonde spesso.

La “vodka” è la protagonista indiscussa: spunto e pretesto, è come “le stigmate di Santa Teresa”, indispensabile per arrivare ad una sorta di salvezza imprecisata, ma che porta oltre il razionale.

Ci si imbatte in pagine veramente esilaranti, dove Venedikt propone cocktail di alcolici e lucido per scarpe, lacca per capelli, vernice, e così via. Ognuno di essi ha funzioni specifiche. Ad esempio, con “un bicchiere di Balsamo di Canaan c’è già un certo capriccio, quasi un pathos e per di più anche un’allusione metafisica”. E ancora la bevanda “Trippa di cane”, è “una bevanda che oscura tutto il resto. Non si tratta neanche più di una bevanda, ma d’una musica delle sfere celesti. Che cosa c’è di più bello al mondo? La lotta per la liberazione dell’umanità!”. “Trippa di cane”, tra i vari intrugli alcolici, contiene anche antiparassitario, soluzione antiforfora e deodorante per piedi.

Sotto il grottesco, tra questi intrugli improbabili e i serrati dialoghi con Satana o gli angeli, si cela un sogghigno preciso. È la critica alla società e al suo tempo. Molti ravvedono una sorta di status di “dissidente” di Venedikt Eroféev, poiché le sue punzecchiature del tutto evidenti sono rivolte alla narrazione mitizzata dell’ufficialità sovietica.

Tuttavia, l’appiattimento di Mosca-Petuškì a libello di contestazione è un’operazione discutibile perché ne sminuisce il valore artistico, ed è anche fondamentalmente errata per almeno due motivi. Il primo è che sposta impropriamente il centro concettuale verso una concretezza politica che il libro non ha. È il disagio dell’uomo moderno il centro concettuale del romanzo. In secondo luogo, non considera che l’autore scrive dall’interno di un contesto sociale e politico determinato, criticando ciò che conosce, ma senza un senso di esclusiva. Ancora una volta, mi pare che la critica e il tentativo di ridicolizzare certi elementi della società sovietica di allora siano semplicemente critiche alla società umana, solo incidentalmente sovietica, pur con tutte le problematiche specifiche che la realtà sovietica comporta. Non a caso, infatti, in contesti occidentali, l’intellighenzia concentrava in quegli anni le sue critiche verso la massificazione e la spersonalizzazione dell’uomo nella società dei consumi. La critica è politica solo in senso lato.

Ii nostri “critici” (virgolettati solo perché citati così, nel generico, per non rendere questa notarella quello che non è), parlano di forme che anticipano il post-modernismo. La differenza starebbe, secondo questa prospettiva, nel fatto che il rapporto tra bene e male in Eroféev rimane ancora definito, mentre nelle varie declinazioni delle filosofie post-moderne questo confine viene a mancare. Come sappiamo, queste post-moderne, sono posizioni giunte in ambito culturale e letterario con un certo ritardo rispetto alle filosofie della conoscenza “debole” che già decenni prima avevano cominciato a delinearsi. Ma influenzarono molto il dibattito di quei decenni, almeno fino alla fine del secolo.

Si potrebbe andare oltre. Visto che la categoria di “post-moderno” è irrimediabilmente invecchiata perché legata ad un dibattito esaurito nei decenni scorsi, ma ancora potente come paradigma interpretativo del nostro presente, non sarà il caso di coniare una nuova etichetta per nominare quello di cui dobbiamo parlare?

Tornando ad Eroféev, Secondo chi vi scrive, Mosca-Petuškì è un romanzo fortemente post-moderno, perché esprime perfettamente il senso di smarrimento e di frammentazione interiore che caratterizza la nostra contemporaneità, anche nell’era della comunicazione globalizzata e dei social media. Ed è allo stesso tempo un romanzo “antico”, che sa anche di sermone, di racconto di pellegrinaggio e di martirio. In poche, stranianti pagine, tutta la stratificazione di una cultura – russa ed europea – che pare sempre sul punto di morire e decadere ma che, in un modo o nell’altro, finisce per salvarsi.


Le citazioni si basano sulla vecchia traduzione di Pietro Zveteremich (Feltrinelli); si segnala però una traduzione più recente di più facile reperimento che potete trovare qui:

Venedikt Eroféev, Mosca-Petuškì, ed. Quodlibet, 2014, traduzione di Paolo Nori.

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