Il paese dei suicidi di Yū Miri
“Sono le 2:36 del mattino. È il 20 giugno 2011 ed è l’anniversario della nostra morte”. Alle parole ‘anniversario della nostra morte’ Mone guardò Nana in volto. […] “Probabilmente non saremo scoperti per giorni… stanno per iniziare le vacanze estive e oggi è lunedì…”. I quattro individui che se ne stanno seduti al buio in un’auto si sono conosciuti su internet. Una donna di mezza età, un giovane uomo poco più che trentenne, un ventiseienne, e poi c’è lei, la giovane Mone, quindici anni appena. Dobbiamo figurarci la seguente scena: questi quattro individui si sono conosciuti di persona pochi minuti prima, ed ora sono in un’area isolata, in mezzo ai boschi, dentro l’auto. L’intenzione è suicidarsi insieme, per farsi coraggio. Ognuno ha una propria motivazione, ognuno ha maturato una stanchezza diversa per la vita e pensa di non aver via di uscita. Questo è uno dei punti culminanti del breve romanzo Il paese dei suicidi, della scrittrice giapponese (ma di origine coreana) Yū Miri.
Un romanzo strutturalmente (e volutamente) disarticolato, breve e diretto. A scandire il tempo sono gli annunci di treni e metropolitane, riportati tra una scena e l’altra, mezzi di trasporto che pervadono la vita degli abitanti della labirintica Tokyo. E poi ci sono le chat di gruppo, piene di anonimi utenti desiderosi di trovare suggerimenti o partner per togliersi la vita. Qualcuno cerca solo di trovare facili conquiste, ma le intenzioni di suicidio sembrano per lo più veritiere.
Mone ha una vita normale. La sua sembra una famiglia come tante, ma sotto sotto cova il malessere di una quotidianità che – fuori dalle idealizzazioni adolescenziali – conosciamo tutti e associamo alle nostre esistenze. I genitori di Mone sembrano del tutto indifferenti al destino della figlia, ed anzi la madre manifesta una chiara preferenza per il fratellino minore. A lui dedica attenzione e tempo per prepararlo agli esami al fine di farlo entrare in una scuola migliore. Mone, da parte sua, è finita in una scuola di importanza secondaria. Fa parte di un gruppo di ragazze, le “Sky Sodas”, ma presto viene emarginata e si prepara ad una vita scolastica fatta di solitudine. A peggiorare ulteriormente le cose, Mone viene a scoprire dal fratellino che presto lui e la madre si trasferiranno altrove. Motivo ufficiale è una scuola migliore per lui, ma in realtà la madre di Mone è stanca dell’amante del marito, una collega più giovane che l’uomo frequenta da quando è nata Mone. Forse è per questo che la madre le dedica attenzioni distratte e sotto sotto cova un certo risentimento. Oltretutto, la figlia assomiglia al padre, anche se ha gli stessi occhi della madre.
Un’esistenza, quindi, tutto sommato ordinaria nelle sue disavventure altrettanto “normali”. Forse è proprio perché si vive di idealizzazioni utopiche (nelle relazioni con gli altri, nelle aspettative su se stessi) che non siamo in grado di affrontare delusioni in questa età così delicata.
Yū Miri indugia a lungo sui particolari della vita materiale della ragazza: descrive il procedimento del trucco, la storia dei peluche che invadono la sua camera, il modo in cui abbina i vestiti, le penne e lo zaino che usa. Ne deriva un senso di concretezza e allo stesso tempo di rallentamento della narrazione. La vita della giovane Mone è vista come al rallentatore.
Mone è turbata da sentimenti contraddittori, talvolta pare distratta da questo flusso vitale, altre volte prova rabbia e voglia di farla finita con tutto. In seguito alla rivelazione del fratellino, cede ad un momento di rabbia e decide di organizzare il suo suicidio insieme a dei perfetti sconosciuti. Toccanti i tentativi di Nana, donna definita semplicemente per la sua “mezza età”, di persuadere Mone a desistere. La ragazza, infatti, ha l’età della figlia minore di Nana.
Contravveniamo alle regole che ci siamo imposti in queste note di lettura, più focalizzate sul significato delle opere che sulle loro trame. Il destino di Mone, qui, è determinante.
La ragazza, in un impeto di paura e commozione, esce dall’auto che si sta riempiendo di monossido di carbonio (tremenda la scena in cui i quattro isolano l’auto con il nastro adesivo per assicurarsi di non risvegliarsi mai più). Mone aveva finto di prendere gli psicofarmaci per addormentarsi, quindi è l’unica rimasta vigile all’interno dell’abitacolo. Fuggendo, poi, lascia lo sportello aperto, così che probabilmente manderà a rotoli il tentativo di suicidio degli altri tre. Ma non lo saprà mai.
Mone, però, non ha perso la sua rabbia. Sua madre e suo fratello la lasceranno sola col padre e si trasferiranno in un’altra città. Le “Sky Sodas” le hanno dato il ben servito e l’attendono mesi di solitudine ed emarginazione. Ma tra un ripensamento e l’altro, in un pianto liberatorio davanti a tutta la classe, nell’ora di inglese, Mone ha fatto la sua scelta. Ha scelto, comunque, la vita.
Yū Miri, Il paese dei suicidi, traduzione di Laura Solimando, Atmosphere 2020.