Servono davvero per imparare una lingua straniera?
Gli esami di certificazione e gli esami universitari servono davvero a qualcosa? È una domanda che può sembrare retorica, ma nasconde varie ambiguità. La competenza linguistica si mostra soprattutto attraverso l’efficacia comunicativa con i parlanti nativi; tuttavia la correttezza grammaticale e la capacità di articolare pensieri complessi dipendono anch’esse da una conoscenza strutturata della lingua. Questa affermazione è condivisibile, ma richiede precisazioni: conviene riflettere sui limiti dei metodi impiegati per «verificare» la conoscenza linguistica.
Porterò qualche aneddoto personale per far emergere tali criticità. Studio lingue straniere da vent’anni, prevalentemente in modo autonomo. Nel tempo ho sostenuto alcune certificazioni (polacco e russo, a livello intermedio e avanzato) e diversi esami universitari. Da queste esperienze è emerso un elemento ricorrente: l’aspetto formale della lingua tende a prevalere sulla competenza pragmatica reale.
Un episodio mi restò impresso: durante un esame universitario — in una lingua che padroneggiavo a buon livello intermedio — la docente, di tanto in tanto, mi interrompeva e mi correggeva in italiano per piccoli errori. Mi poneva domande che ritenevo semplici; rispondevo con scioltezza, pur riconoscendo qualche sbavatura. Vedendo il mio disagio, la docente chiuse l’esame osservando: «…però non basta parlare bene in una lingua straniera». La mia fiducia nella validità di quei criteri vacillò quando, assistendo all’esame della studentessa successiva, la sentii recitare frasi apprese a lezione secondo una struttura di domande poco spontanea e con una pronuncia lontana da quella di un madrelingua. La docente, invece, ne fu entusiasta e premiò quella performance con un buon voto.
Chi ha frequentato una facoltà di lingue sa che molti studenti riconoscono una verità scomoda: non sono state quasi mai le sole lezioni a far loro acquisire realmente la lingua, ma la dedizione personale e il lavoro costante nel tempo. Le lezioni possono agevolare il percorso — indicare una direzione, suggerire risorse, creare un contesto stimolante — ma spesso non sostituiscono lo sforzo individuale prolungato.
Non voglio però generalizzare partendo da qualche esperienza negativa. Il formalismo didattico ha un suo valore: aiuta ad acquisire strutture grammaticali corrette e a costruire basi solide. Allo stesso tempo, però, mette in evidenza i limiti di un approccio che privilegia la forma rispetto all’uso reale della lingua.
Le certificazioni, in particolare, possono risultare utili proprio perché impongono obiettivi definiti. La preparazione a una certificazione spesso richiede immersione nel contesto linguistico per periodi prolungati e spinge a organizzare lo studio in modo rigoroso. Esse accrescono la consapevolezza meta-linguistica e, offrendo una meta concreta da raggiungere, possono mantenere la motivazione e la continuità nello studio — qualità che in assenza di obiettivi rischiano di affievolirsi.
In sintesi: né le certificazioni né gli esami universitari costituiscono da soli la prova ultima della padronanza di una lingua o sono necessari per conseguirla. Sono strumenti — preziosi se usati con giudizio — ma vanno integrati con pratica comunicativa reale, immersione, e studio autonomo mirato, sopratutto comunicando il più possibile, senza timore di sbagliare, e creando legami emotivi e umani con i parlanti madrelingua.
Solo la combinazione di questi elementi permette di trasformare la conoscenza formale in competenza comunicativa effettiva.