Sospensioni filosofiche nel romanzo incompiuto Denti di leone di Kawabata Yasunari
Nella campagna silenziosa, nei pressi di un tempio, si trova una clinica con un reparto psichiatrico e neurologico. Ad ore stabilite, ogni giorno, la campana del tempio risuona. Sono i “matti” a suonare la campana. Il personale della clinica pensa che questo rito abbia la capacità di dar sollievo ai pazienti. La giovane e bella Ineko soffre di un grave disturbo: a tratti gli oggetti e le persone di fronte a lei scompaiono. Non si tratta di un caso di cecità, ma di una vera e propria invisibilità selettiva che colpisce in particolare le persone amate da Ineko. È per questo che sua madre e il suo fidanzato, Hisano, la stanno accompagnando in questa clinica psichiatrica situata in un angolo remoto e silenzioso.
È questa, grosso modo, la cornice narrativa di Denti di leone, dello scrittore Kawabata Yasunari. Kawabata Yasunari è stato premio Nobel per la letteratura 1968. Morto suicida nel 1972, è considerato tra i maggiori autori della letteratura giapponese del XX secolo. Denti di leone (è il nome di un fiore comune, di colore giallo, più noto come Tarassaco, in originale suona Tanpopo), non solo non è tra le sue opere più conosciute, ma si tratta anche di un testo incompiuto.
Il valore estetico e letterario non trae danno da questa incompiutezza perché il racconto non ha una trama vera e propria. Si costruisce, infatti, sul dialogo tra la madre di Ineko e Isano che pernottano in una locanda poco lontana dal tempio. I due ricordano le vicende della vita della ragazza (tra le quali la tragica morte del padre), ma per lo più cercano di capire quale sia la causa della misteriosa malattia di Ineko. Non la causa medica, ma quella esistenziale.
Ritualità e sospensione sono le dimensioni spirituali che invadono la mente al lettore e che, in questa lettura para-filosofica che vorrei dare dell’opera, costituiscono il valore del libro.
Gesti lenti, parole che si ripetono, ragionamenti che ritornano su se stessi. L’equilibrio interiore umano è notoriamente fragile, e quello di Ineko è stato scosso dalla morte del padre. Ma questa non sembra essere una spiegazione rassicurante e sufficiente.
C’è una costante allusione ad un mondo altro, in queste poche pagine di Denti di leone. Allusioni non certo ad un qualche aldilà, ma ad una componente che va oltre la comprensione, che riguarda anche la semplicità della vita di tutti i giorni e l’emotività delle persone. Kawabata Yasunari è in questo erede della poesia tradizionale giapponese che fa dell’indefinito e dell’allusione strumenti costanti per costruire, a mio avviso, una poetica tipica della cultura del Sol Levante.
Quando la letteratura diventa concettualmente stratificata, diventa anche filosofica. Usa simboli che rimandano ad altro, come dicevamo prima allusivi e indefiniti, ma costituiscono un altro modo per cercare di capire la realtà; anzi, di dimostrare come non sia possibile comprenderla fino in fondo. Hisano, il fidanzato di Ineko, ascoltando la campana che sa suonata dalla ragazza, sostiene che quel suono esprima l’impermanenza di tutte le cose. Si tratta di una citazione colta del giovane Hisano, visto che riporta le parole dello Heike Monogatari, un testo narrativo del XIV secolo. Un altro espediente per sollevare problemi senza cercarne la soluzione.
Non sappiamo come si sarebbero potute evolvere le vicende di Ineko, di Hisano e della madre. Ne ricaviamo, però, questa idea di sospensione del giudizio, una sorta di epochè rivista in chiave orientale, a noi nota dal pensiero scettico dell’antichità.
Un popolo molto più emotivo di quanto si possa pensare, quello giapponese, a quanto pare. Una cultura che non ha mai tentato di costruire sistemi generali di spiegazione del mondo prima di mescolare la propria visione con quella occidentale, ma che si è concentrata sui particolari, le sfumature, i dettagli. Ancora una volta un modo delicato di alludere all’impossibilità di una comprensione profonda e totale della vita e della realtà.