Un confronto tra strutture delle lingue europee e il giapponese
Introduzione. Questo articolo esplora come famiglie linguistiche distinte, rappresentate dall’italiano (come esempio di lingua indoeuropea) e dal giapponese, organizzino concetti pragmatici universali quali l’espressione del consiglio, del desiderio e della necessità attraverso architetture grammaticali divergenti. Partendo da un’analisi della costruzione giapponese “-ta hō ga ii”, equivalente funzionale di espressioni come “è meglio…”, risulta chiaro come la realizzazione di significati affini avvenga non per stretta corrispondenza lessicale, ma attraverso principi sintattico-pragmatici differenti. L’analisi rivela una dicotomia tra un approccio dichiarativo ed esplicito, tipico delle lingue europee, e un approccio relazionale ed implicito, caratteristico del giapponese, suggerendo che la grammatica operi come un filtro cognitivo attivo nell’organizzazione dell’esperienza.
La grammatica come architettura cognitiva. Immaginiamo due architetti. Uno, formatosi in Europa, progetta una casa partendo da un concetto chiaro. L’edificio deve essere un rifugio. L’altro, formatosi in Giappone, parte da un’idea relazionale. L’edificio deve armonizzarsi con l’ambiente circostante. Entrambi costruiranno un’abitazione, ma i materiali, le proporzioni e il rapporto con il contesto saranno radicalmente diversi. La necessità fondamentale è la stessa, ma il percorso per soddisfarla e l’esperienza risultante sono vie specifiche. Le lingue funzionano in modo analogo e costituiscono i progetti “architettonici” con cui costruiamo e comunichiamo la nostra realtà.
Come accennato poco sopra, vediamo come due famiglie linguistiche lontane organizzano, attraverso le loro strutture grammaticali ordinarie, concetti universali come la preferenza, il desiderio o l’obbligo.
Prendiamo un’espressione quotidiana come “è meglio aspettare”. In italiano, si tratta di un’affermazione dichiarativa che attribuisce una qualità comparativa (meglio) a un’azione. In giapponese, la stessa nozione si realizza attraverso una struttura relazionale in cui non vi è traccia di un lessema per “meglio”, eppure il valore comunicativo è identico.
Questo caso è sintomatico di due filosofie linguistiche distinte, la tendenza delle lingue europee verso una maggiore trasparenza logica e la dichiarazione esplicita contro la preferenza giapponese per l’implicito e l’uso situazionale.
Spieghiamo il costrutto. Per dire in giapponese “è meglio aspettare fino a domani” usiamo questa struttura:
明日まで待ったほうがいい
Ashita made matta hō ga ii
Strtuttura: Domani fino aspettato lato particella SOGG è buono
È meglio aspettare fino a domani
Un’analisi scompositiva del verbo rivela la natura relazionale della struttura, composta da tre elementi chiave:
待った matta, la forma -ta del verbo matsu (aspettare). Sebbene formalmente la forma -ta sia identica al passato, in questo contesto assume una funzione aspettuale perfettiva o ipotetica. Stabilisce l’opzione come un evento compiuto in uno spazio astratto.
ほうhō, parola che significa “direzione”, “lato” o “parte”. In un quadro comparativo, indica una delle opzioni possibili tra quelle disponibili nel contesto.
がいい, ga ii: particella che marca chi compie l’azione (ga) e predicato aggettivale (ii) che significa “è buono”.
Una improbabile traduzione letterale che renda però la struttura, può quindi essere:
La parte/l’opzione [che consiste nel] ‘aver aspettato’ è buona.
Il significato di “meglio” non è contenuto in alcun costituente lessicale in modo esplicito, ma emerge pragmaticamente dall’intera costruzione. La struttura crea uno spazio mentale comparativo in cui un’opzione esplicitata viene qualificata come buona, lasciando all’ascoltatore il compito di inferire che, tra le alternative implicite, essa sia di conseguenza la più raccomandabile.
Non si dichiara A è meglio di B (è meglio aspettare fino a domani, piuttosto che non farlo), ma si suggerisce fortemente questa relazione per contrapposizione. Questo meccanismo è confermato dalla struttura comparativa completa, dove il termine di paragone è spesso omesso perché recuperabile dal contesto:
AよりBのほうがいい
Strtuttura: A yori B no hō ga ii A rispetto-a B di lato SOGG è-buono
B è meglio di A (letteralmente: Rispetto ad A, il lato di B è buono)
Discrepanze strutturali sistematiche nella modalità. Il principio della realizzazione indiretta e relazionale non si limita all’espressione del consiglio, ma caratterizza un pattern più ampio nella grammatica giapponese, evidente in altri campi della modalità, come il desiderio, il permesso e l’obbligo.
Ad esempio per esprimere il desiderio, l’italiano ricorre a un verbo principale dichiarativo (volere) che regge l’infinito. “voglio andare in Giappone”. Il giapponese incorpora la modalità desiderativa attraverso un suffisso morfologico che in italiano o altre lingue europee esprimerebbe elementi come tempo verbale, modo, persona, ecc, ma non specifiche intenzioni o desideri, che invece verrebbero espressi dalla struttura della frase con un lessico esplicito.
Per esprimere “voglio andare in Giappone”, la lingua giapponese dice:
日本に行きたい
Nihon ni ikitai
Strtuttura: Giappone verso andare-voglio(agg.)
Voglio andare in Giappone
L’analisi morfologica mostra la radice verbale iki (andare) unita a -tai (suffisso del desiderio). Non vi è un verbo autonomo equivalente a “volere”; il desiderio è concettualizzato come uno stato interno che modifica direttamente l’azione, comportandosi sintatticamente come un aggettivo.
Passiamo ad un altro esempio. La richiesta di permesso in italiano si basa sul verbo modale potere (Posso entrare?). La corrispondente espressione giapponese si struttura come una domanda sulla bontà o appropriatezza di un’azione condizionale.
入ってもいいですか
Haitte mo ii desu ka
Strtuttura: Entrare anche buono è + particella interrogativa
Posso entrare?
Letteralmente la frase chiede “Anche entrando, è buono?”. La possibilità è dunque rappresentata non come una capacità o facoltà del soggetto, ma come una valutazione favorevole della situazione qualora l’azione venisse compiuta.
Un ultimo esempio. La necessità espressa in italiano con “dovere” trova in giapponese una realizzazione attraverso una complessa costruzione a doppia negazione condizionale.
勉強しなければならない
Benkyō shinakereba naranai
Strtuttura: Studio fare-se-non diviene-non
Devo studiare
La forma letterale è “Se non studio, non va bene (o non funziona/non diventa)”. L’obbligo non è presentato come un imperativo interno al soggetto (devo), ma come una conseguenza logica e inevitabile di una condizione negata. Si descrive una relazione causale oggettiva piuttosto che dichiarare uno stato deontico soggettivo.
Relazioni contestuali vs Dichiarazioni soggettive. L’accumulo di questi esempi rivela una dicotomia profonda nell’organizzazione del pensiero linguistico. Le lingue europee come l’italiano tendono a concettualizzare e dichiarare ed esplicitare anche con gli strumenti grammaticali stati interni o qualità attribuite a un soggetto. Il soggetto è il fulcro grammaticale e semantico: io voglio, io devo, questo è meglio. Il giapponese, al contrario, privilegia la descrizione di relazioni tra elementi all’interno di un contesto. Piuttosto che attribuire la qualità di migliore a un’azione, la lingua mostra che, nella relazione tra le opzioni, una direzione risulta buona, preferibile, opportuna. Invece di dichiarare un volere del soggetto, modifica l’azione stessa con un marcatore di desiderio. Al posto di imporre un dovere, delinea una catena causale dalla quale emerge una necessità (se non X, allora non Y).
Questo approccio riflette una preferenza per l’economia contestuale e per l’implicito. La grammatica evita l’imposizione diretta dell’agente sulla realtà, preferendo descrivere le condizioni affinché l’interlocutore possa dedurre il significato pragmatico.
Conclusioni e implicazioni traduttive. Le discrepanze strutturali analizzate hanno conseguenze concrete per la traduttologia e l’apprendimento delle lingue.
L’acquisizione del giapponese non può limitarsi alla ricerca di corrispondenze lessicali biunivoche, a traduzioni letterali. La ricerca di questi equivalenti perfetti è sempre un errore nello studio delle lingue in genere, ma lo è maggiormente con lo studio di una lingua diversa da quelle indoeuropee come il giapponese.
Credere che “-ta hō ga ii” significhi semplicemente “meglio” è funzionalmente corretto a livello comunicativo immediato, ma occulta il diverso percorso cognitivo compiuto dalla lingua di partenza.
In traduzione, il compito non è la trasposizione meccanica, ma la ricostruzione della logica implicita della lingua e del contesto. Una resa che voglia mantenere il sapore dell’originale potrebbe, ove lo stile lo consenta, privilegiare perifrasi che riflettano l’approccio indiretto (es. sarebbe bene se…, conviene…).
Lo studio di tali divergenze conferma che le lingue non sono semplici codici intercambiabili, ma sistemi che organizzano attivamente il mondo. Mentre le lingue europee concettualizzano nozioni come la preferenza quali qualità intrinseche da dichiarare, il giapponese le rappresenta come relazioni emergenti da un contesto di opzioni.
Imparare una nuova lingua significa, in ultima istanza, sperimentare un modo alternativo di organizzare la realtà fenomenica e il mondo che ci circonda.
Bibliografia
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