I “tipi umani” della commedia invitano a prenderci meno sul serio
Dopo aver evitato con qualche riserva la commedia anche nei periodici ritorni ai classici, di recente mi sono ritrovato Plauto di fronte, e con un malcelato senso di colpa ho dovuto cedere alla lettura.* Gli anni passavano e la ripromessa di leggere qualcosa in proposito continuava ad essere disattesa. Ma facciamo un passo indietro. Chi è Plauto? Col nome incerto di Tito Maccio Plauto vengono tramandate un gruppo di commedie di un autore nato tra il 255-251 a.C a Sarsina e morto intorno al 184 a.C. I particolari della biografia interessano poco in questa sede e anche le complesse vicende filologiche dei suoi scritti giunti fino a noi. Come era consuetudine allora, gli autori latini prendevano in blocco trame e intrecci della commedia greca e apportavano adattamenti e contributi personali, senza che questo procedimento fosse inteso come segno di poca originalità. E così fece Plauto, anche se è ormai opinione comune che l’apporto di originalità romana, infuso dall’autore latino alle trame greche, abbia costituito la base di veri e propri clichè passati poi in tutto il teatro moderno e contemporaneo occidentale. Continua a leggere “Plauto, Leopardi e il ribaltamento ironico”
Il titolo singolare è la prima cosa che salta all’occhio. La cornice narrativa dentro la quale si sviluppa questo breve ed agile libro, è una serie di chiacchierate “telefoniche” tra i due autori, Yukiko Nakamura e Marco Sampietro, tra Roma e Tokyo. Ma è proprio durante quelle chiacchiere intercontinentali che Yukiko e Marco si raccontano storie, in qualche modo basate sulle loro reali esperienze di vita, ma romanzate nel gusto tipico di chi ama fare letteratura. Il singolare titolo, infatti, non è altro che la somma dei tre titoli delle storie che gli autori e amici si raccontano: “Pomy, Cervello, Libellula”. I primi due racconti – intervallati e “interrotti” come il terzo anche dalle considerazioni dei due amici, fatto che conferisce una certa vivacità alla narrazione – si devono a Yukiko Nakamura.
Immaginiamo di entrare nel salone di una magnifica dimora storica. Magari ci troviamo nella veste di turisti. Alziamo gli occhi verso un vorticante soffitto affrescato. Riconosciamo qualche immagine, qualche personaggio, ma per lo più il godimento che ne traiamo è estetico, non mediato dalla conoscenza del soggetto. È molto probabile che il tema trattato dall’affresco sia di origine mitologica, e precisamente che le figure che dominano maestose sulla nostra testa, siano divinità del pantheon greco-romano.
Quando acquisto libri in contesti non familiari, vale a dire non nelle solite librerie in cui vado, ma in giro per il paese, per bancarelle, in ammuffite librerie di usato, e così via, sono solito mettere una notarella sul luogo e la data di acquisto, in fondo al libro. Pare che questa volta mi sia dimenticato di scrivere questa nota ausiliare della memoria, visto che il libretto Salotti romani dell’Ottocento, scritto da Ludovico Paolo Lemme e pubblicato da una casa editrice che non avevo mai sentito, non riporta né data, né luogo di acquisto. Il volumetto ha “solo” trent’anni, ma pare ben più antico per via della grafica retro. Non è stato, però, il valore antiquario del libro, peraltro nullo, a spingermi a comprarlo (forse a Bologna?), quanto il tema: il salotto culturale.
Gli esseri umani hanno sempre cercato di relegare i lati neri dell’esistenza sul fondo della loro coscienza. Di volta in volta con ideologie redentrici, negazioni, tentativi di oblio. Tra questi ultimi rientra certamente l’uso di bevande o sostanze che possano farci allontanare dalla realtà, in apparenza salvandoci dalla sofferenza.