Note su “Il cuore delle cose” di Natsume Sōseki
Una letteratura “facile”, che suoni sui tasti di una comprensibile emotività e che si sviluppi in una trama avvincente, non è da biasimare. Fa il piacere della lettura e, qualche volta, produce anche opere destinate a restare. Quelle che, decenni o secoli dopo, definiremo “capolavori”. Tuttavia, è esistito ed esiste anche un modo di scrivere che nasce prima della necessità di piacere a un “pubblico”, che poi sono i lettori (necessità legittima, l’ho capito anche io, finalmente). Quel tipo di letteratura era possibile solo prima che si sviluppasse il “mercato editoriale”, un meccanismo socio-economico che ha portato il libro a diventare anche, se non soprattutto, prodotto, con tutte le logiche, positive e negative, che questo mutamento ha comportato. Tutta questa premessa per dire che le opere dell’autore di cui si vuole parlare qui, Natsume Sōseki (夏目漱石 1867-1916), collocandosi proprio nell’epoca di transizione verso la modernità, godevano di una libertà oggi impossibile. O meglio, possibile, ma che relegherebbe alcuni dei suoi libri in qualche cassetto dei “non pubblicati”. Continua a leggere “Il fluire della storia nel destino individuale”
C’è una dimensione, tanto letteraria quanto reale che, per quanto ripetuta a lungo, non sembra proprio passare di moda: la noia del quotidiano e l’assurdità del suo ripetersi. Dopo due secoli di “letteratura della noia”, da Leopardi, passando per Sartre, e arrivando agli infiniti imitatori di oggi, dovremmo averne abbastanza. In fondo, in questa disposizione d’animo tipica della modernità risiede tutta la verità delle nostre dormienti province, delle nostre città caotiche e inconcludenti; una realtà solo superficialmente scalfita dalla rivoluzione dell’iper-velocità delle comunicazioni. Leggete i drammi di Cechov, e vi accorgerete come il clima dei suoi dialoghi, ambientati in una dormiente Russia rurale della fine del XIX secolo, poco si discosta da molti dei nostri atteggiamenti.
La mia copia de Gli indifferenti di Moravia emana un forte odore di carta vecchia. Compirà, a breve, cinquant’anni (la mia copia, non il romanzo). La vecchia edizione presenta una copertina di finta pelle rossa, un tascabile Fabbri Editori piuttosto brutto (anche se qui allego un’edizione diversa). Ma il testo è quello, fa il suo dovere: il romanzo del grande scrittore, un tempo tanto noto, oggi quasi dimenticato. Moravia è però tornato sulla bocca dei suoi connazionali di oggi per un breve momento; grazie alla scelta di un titolo che lo riguardava all’esame di maturità di quest’anno. È stato un piccolo scandalo (di sapore piccolo-borghese e provinciale, come molti dei suoi personaggi): chi mai arriva a concludere il programma scolastico fino a questo punto, fino al Novecento inoltrato? Una traccia inutile, dunque. I nostri studenti neppure sanno chi era il povero Moravia. Eppure, per anni, non è stato solo l’emblema dello scrittore, ma anche dell’intellettuale impegnato, amico di Pasolini, prolifico scrittore di opere allo stesso tempo profonde, ma anche divertenti, a loro modo. Da “letteratura di consumo”.
Il mondo sotto i piedi è come se si sbriciolasse. La società che conoscevamo prima, i valori che ispiravano i nostri comportamenti, i nostri scopi e il percorso del nostro vivere, sono stati ribaltati, messi in crisi in un modo tale da renderli irriconoscibili. Ecco, è questo il quadro che descrive Dazai Osamu (1909-1948) in due delle sue opere principali, i due romanzi brevi Il Sole si spegne (
Celare se stessi dietro un personaggio è il primo espediente di un autore. La visione della propria esistenza “sublimata” nella narrazione letteraria è una fonte comoda e a portata di mano a cui spesso ricorrono anche gli autori alle prime armi. Mishima, però, è autore troppo importante per rimproverargli l’utilizzo di un espediente così trito, se non quasi banale. In Confessioni di una maschera (Kamen no koruhaku, 仮面の告白), uno dei più importanti autori giapponesi del Novecento si mette a nudo: sono tanti i critici e i lettori, infatti, che non hanno faticato a vedere nella voce narrante tutte le contraddizioni e i dubbi dello stesso Mishima, ben oltre le coincidenze tra storia e vicende biografiche dello scrittore. Come spesso accade, però, queste coincidenze autore/personaggio perdono di significato nelle grandi opere: è il significato più ampio della vicenda umana dei protagonisti ad assumere un valore di per sé, filosofico ed estetico insieme.
Russia, inizio Novecento. La prima fase del processo di industrializzazione iniziata alla fine dell’Ottocento ha portato alla creazione di primi distretti industriali e del proletariato urbano anche in terra russa. Il romanzo di Gor’kij, La madre, si apre con la descrizione a tinte fosche di questa realtà: un sobborgo tetro e fumoso, dove i giganteschi edifici della fabbrica si fanno ancora più cupi al suono della sirena, nell’andirivieni degli operai, con i loro visi anneriti e le loro espressioni cupe. Il racconto è introdotto dalla comparsa di Michail Vlasov, fabbro di mezza età che conduce una vita di stenti, persa nel solo lavoro alla fabbrica e nell’ubriachezza continua. Vlasov ha una famiglia: il figlio Pavel e la moglie Pelageja. La vita familiare è scandita dalla rabbia muta di Vlasov, marito e padre violento che per lunghi anni usa violenza sulla moglie, vittima rassegnata. Ma il ruolo di Michail giunge presto al termine. Ormai minato nel fisico e nel morale dalla vita alla fabbrica, Vlasov muore dopo poche pagine del romanzo.
Insaziabilità, il romanzo del polacco Witkiewicz del 1930, è un’opera assurda e totalmente folle. E anche per questo è un capolavoro. Oltre cinquecento pagine di rimuginio interiore, in una prosa iper-barocca e serratissima, vivace, confondente, labirintica e alienante, dove la trama assume quasi un’importanza secondaria. La storia, infatti si riassume in poche righe. Il romanzo racconta la storia del giovane Genezyp Kapen, figlio di un ricco birraio, che finisce nell’esercito. Il contesto che fa da sfondo alla vicenda è abbastanza inquietante. Siamo in un momento indefinito del XX secolo, e il cinesi stanno conquistando militarmente il mondo ed esportando il comunismo. Grazie all’adozione dell’alfabeto (sic!), la loro civiltà ha avuto un’accelerazione improvvisa, sorpassando militarmente e tecnologicamente il resto del mondo. Loro missione è governare la “razza” bianca, ormai moralmente decaduta e incapace di governarsi autonomamente, ed estirpare l’individualismo, malattia dell’occidente; arrivati al loro obiettivo, infatti, imporrano l’ibridazione tra i “gialli” e i “bianchi” per creare una razza nuova e risollevare le sorti dell’umanità.
Dopo una notte tormentata e un’inquietante visione premonitrice, il trentenne Gingio viene visitato dal paludato e maturo professor Pimko. Constatata l’immaturità di Gingio, al puntiglioso professore pare inaccettabile lasciare Gingio nella sua immaturità, e ritiene suo dovere “rimpicciolirlo”, fargli cioè intraprendere un percorso adeguato di maturazione, e ricondurlo quindi a scuola. Da quel momento la vita del protagonista si fa assurda e grottesca. Gingio torna a scuola, in mezzo ai ragazzi, ma… nessuno si rende conto che si tratta di un uomo adulto e tutti lo trattano come un ragazzino. Questa l’idea di fondo su cui si sviluppa il romanzo Ferdydurke (titolo nonsense) di Witold Gombrowicz, autore polacco della metà del secolo scorso.
Adolf Dygasiński (1839-1902), scrittore polacco, in La festa della vita (Gody życia, 1900) descrive la vita di un uccellino, un piccolo e comune scricciolo. Il piccolo volatile vive in povertà, osservando gli uccelli migratori nel loro cosmopolitismo alla ricerca di un’abbondanza sempre a portata di mano. Ma lo scricciolo ha deciso di vivere in prima persona tutte le stagioni, sopportando lo squallore e la fame dell’inverno per poi attendere la ricchezza ritrovata della primavera. Nonostante questo alternarsi di fortune, l’uccellino non è mai triste, perché il tempo ciclico gli ha dimostrato che sofferenze e miserie sono mali passeggeri, mentre solo la gioia per la vita può essere eterna, se sappiamo come affrontarla.