La performance artistica come cuore (“timido”) della cultura giapponese
All’inizio pensavo che il J-pop fosse solo una variante regionale del pop internazionale, con qualche peculiarità che lo rendeva diverso, come la lingua utilizzata e qualche raro richiamo alla musica tradizionale. In particolare, mi pareva che quel genere che racchiude band di ragazzine saltellanti che spesso cantano in coro, ricorrendo a stili, abiti e espressioni del noto linguaggio del “kawaii”, potesse considerarsi un genere emblematico del J-pop. In realtà, qualche riflessione sul passato, sulla storia culturale del paese, mi ha dato qualche spunto per vedere un po’ più in profondità questa variante giapponese del pop internazionale. Continua a leggere “Il J-pop e le danze Kagura (神楽)”
Lo sguardo sulla città. Come ha potuto una società collettivista, dove il gruppo è più importante dell’individuo e dove le relazioni e la gerarchia sono fondamentali, diventare una società frammentata, composta da individui che corrono, indaffarati e spesso soli, come atomi isolati che roteano nel vuoto? Tokyo non è il Giappone, è un’eccezione. Come lo sono tutte le grandi metropoli. La vera vita “media”, forse, è quella dei piccoli centri, delle medie città di provincia. Ma Tokyo, in quanto eccezione, contiene ciò che è tradizionale, tipico della cultura del luogo, e allo stesso tempo ciò che se ne discosta. Dopo tre anni che trascorro qui buona parte dell’autunno, comincio lentamente e con fatica a farmi un’idea più profonda della città. Non tanto nelle sue manifestazioni esteriori e nella sua urbanistica, ma in quello che potrei chiamare “l’intima emotività” di Tokyo.
L’argomento di questo articolo esula dalle tematiche che di solito tratto su questo sito e gli spazi social ad esso collegato. Devo dire, però, che ho una particolare curiosità per un tema che in qualche modo ritengo collegato alla letteratura e al linguaggio. Ma che cosa, in fin dei conti, non è collegato a ciò che è linguaggio e al tentativo attraverso il linguaggio di raccontare la vita? Tutto ciò che è umano. Il tema è il seguente: se sia possibile capire i sogni, le aspettative i disagi, gli stati d’animo degli individui nella società contemporanea studiando da vicino coloro che di questa fauna umana sono i principali rappresentanti: influencer, blogger, tiktoker, youtuber. Va da se che ogni fenomeno psicologico e sociale umano contiene questo oggetto di studio (gli stati d’animo e simili). Ma negli ultimi vent’anni ormai il principale spazio in cui l’umano si manifesta è il social web, e se si vuole capire qualcosa di questo mondo, e anche lì che bisogna guardare.
Da qualche tempo vado raccogliendo appunti sulla “letteratura femminile giapponese”, e prima o poi spero di trarre da questo materiale un testo di maggiore respiro, come un articolo o un’opera breve di carattere divulgagivo. È questa, quella di “letteratura femminile giapponese”, già un’etichetta antipatica. Non tanto per la necessità di essere politicamente corretti (l’atteggiamento del politicamente corretto spesso si incaponisce su questioni di forma di secondaria importanza e si occupa raramente di sostanza, di fatto ostacolando le battaglie che afferma di sostenere), quanto per il pericolo di creare un doppio binario tra letteratura maschile e femminile. Intendiamoci, che lo sguardo portato nella letteratura da autori di genere diverso porti con sé inevitabili sfumature differenti, è un’ovvietà. Ma non lo è in termini di qualità. Certo lo è in termini di diversità di sguardo sul mondo, e io lo considero un valore aggiunto. Anche se si sceglie di sottovalutare la diversità intrinsecamente biologica, o se ne ridimensiona la portata, il differente vissuto sociale delle donne in quanto donne, lascia traccia nell’esperienza viva e influisce in modo sostanziale sull’idea che le donne si fanno di se stesse. La donna vive una società che, nonostante un secolo di lotte politiche e civili, tenta sempre di ridurla ad un ruolo subordinato, anche nelle tanto autoincensate democrazie liberali. E alcune donne si sono fatte scrittrici anche per questo.
Il titolo singolare è la prima cosa che salta all’occhio. La cornice narrativa dentro la quale si sviluppa questo breve ed agile libro, è una serie di chiacchierate “telefoniche” tra i due autori, Yukiko Nakamura e Marco Sampietro, tra Roma e Tokyo. Ma è proprio durante quelle chiacchiere intercontinentali che Yukiko e Marco si raccontano storie, in qualche modo basate sulle loro reali esperienze di vita, ma romanzate nel gusto tipico di chi ama fare letteratura. Il singolare titolo, infatti, non è altro che la somma dei tre titoli delle storie che gli autori e amici si raccontano: “Pomy, Cervello, Libellula”. I primi due racconti – intervallati e “interrotti” come il terzo anche dalle considerazioni dei due amici, fatto che conferisce una certa vivacità alla narrazione – si devono a Yukiko Nakamura.
Le crisi esistenziali rientrano nei cliché dell’esistenza (e della narrativa). Ed è proprio questo ad indispettire il frivolo e disilluso Bimko, professore di liceo alle prese con una vita di ordinaria mediocrità: un amore ormai consumato, la perdita di fiducia in ogni suo antico ideale, l’insoddisfazione per una quotidianità grigia e banale. Cultore di letteratura cinese e giapponese, è affetto da un’insana ossessione erotico-estetica per le donne dell’Asia orientale, un tipo di bellezza alla quale assegna addirittura significati allegorici e spirituali. Decide così di lasciarsi tutto alle spalle, di scivolare in un vitalismo entusiasta e di partire per l’Asia Orientale. Il romanzo è la storia di questo grottesco viaggio, tra Cina, Corea e Giappone, lungo il quale Bimko è vittima di avventure esilaranti e inverosimili nel tentativo improbabile di radunare ragazze disposte a vivere con lui in un convivio di amore collettivo.
Se per raggiunta sopportazione ti capita di strangolare, in una sera come tante, tuo marito, e se poi le colleghe di lavoro, una notte come tante, ti aiutano a liberarti di quel cadavere facendolo a pezzi, non è il caso di parlare necessariamente di indole criminale o, ancora peggio, di patologia mentale. Se quella vita, piccola, deludente, senza speranza, ti ha logorato per anni, allora, magari, la patologia è in quel caso la vita stessa, ed è inutile scomodare lo psichiatria. Il romanzo di Kirino Natsuo, Le quattro casalinghe di Tokyo (titolo troppo didascalico scelto dall’editore italiano in luogo di un laconico Out) è un romanzo multi-strato e multi genere. Thriller, noir, romanzo esistenziale sulla condizione della donna (ma anche dell’uomo) nel mondo moderno, sulla solitudine, sui mostri che ci vivono dentro e che fingiamo di non vedere. Mostri che tuttavia stanno lì, pronti ad uscire e a smembrare cadaveri. Kirino Natsuo (manteniamo l’uso tradizionale giapponese di citare gli autori nell’ordine cognome-nome) disegna un mondo normale; anzi di una banalità sconcertante, e poi ci mostra come quei mostri vivano in esso perfettamente mimetizzati. Anzi mostra che, in fondo, siamo tutti mostri.
Una vita scandita dalle tappe. Tappe imposte dal sistema sociale dove nasciamo e cresciamo. La scuola, la professione, la vita di coppia, la famiglia, i figli. Tutto ciò che va fuori da questi schemi è fuori dalla “normalità”, suscita sospetto, disapprovazione, persino scherno, qualche volta beffa. La Trentaseienne Keiko lo ha imparato a proprie spese. È tutta la vita che finge normalità, fin da quando, ancora bambina, ha scoperto che le persone che ci circondano reagiscono spaventate, spazientite, scandalizzate, se le reazioni che abbiamo fuoriescono dagli schemi delle loro attese. Persino i genitori e la sorella, che comunque l’hanno sempre amata, sostengono che in qualche modo Keiko debba “guarire” dalla sua stranezza. Non è sorprendente che La ragazza del convenience store (Kombini ningen) della scrittrice Murata Sayaka abbia riscontrato un grande successo, prima in patria e poi fuori dai confini. Quella della “normalità” è un tema delicato ed universale. Ci è concesso trasgredire in giovane età, ne abbiamo tutte le scusanti e, in fondo, anche il tacito consenso della società. Ma fuoriuscire dai binari oltre le soglie di quella fase della vita, fin dentro la maturità, è inaccettabile.
Si sa, quello del Sol Levante è un paese dove i treni arrivano in orario. E non come nell’immaginario dei nostalgici del ventennio in Italia, ma per davvero. Le code di persone sono ordinate, e sui mezzi pubblici lo straniero, con sgomento, assiste ad uno spettacolo inusuale: tutti stanno in silenzio “di tomba” o quasi. Non sono stereotipi, ma fatti macroscopici che risaltano agli occhi di uno straniero in Giappone. Eppure, sotto la coltre di una società ordinata e regolata, cova un sordo malessere, soprattutto tra i giovani, che può farci rabbrividire. Di questo tema è – come accade spesso – l’arte a parlarcene, in questo caso attraverso la letteratura. Kanehara Hitomi è stata un Enfant Prodige della letteratura giapponese. All’inizio del nostro secolo, nel 2004, l’autrice (classe 1983) pubblicò il suo romanzo breve Serpenti e piercing, e riscosse un enorme successo. Il